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Achille Lauro è qui per restare

Il suo nuovo album,1990, non è propriamente un capolavoro, ma è divertente: il cantante si conferma una delle più interessanti pop star italiane.

di Clara Mazzoleni

Chiedo a quelli nati verso la fine degli anni ’80, come me: anche voi ascoltando il nuovo album di Achille Lauro non sapete se ridere o piangere? Non perché 1990 – si chiama così, è la sua data di nascita – faccia schifo o sia ridicolo, come sostengono i suoi detrattori, ma perché ha sicuramente il potere di suscitare emozioni abbastanza intense, che mescolano la nostalgia per gli anni della pre-pubertà allo sguardo intenerito ma anche derisorio con cui noi trentenni di oggi ripensiamo a quei ragazzini con i capelli da Leo DiCaprio e quelle ragazzine con la maglietta Onyx che eravamo. Sembra di vederli, con le loro scarpe enormi, Nike Silver o Fornarina, mentre calpestano la ghiaia davanti agli autoscontri fumando Marlboro rosse una dopo l’altra. Nell’aria, intorno a loro, la musica che Lauro ha reinterpretato  – i detrattori dicono che non è certo stato il primo a farlo: la label PC Music, ad esempio, ci aveva già pensato nel 2014 – e quei ragazzini e quelle ragazzine che nel tempo libero giocavano a Snake sui loro Nokia (quanto eravamo dementi rispetto agli intelligentissimi, velocissimi, impegnatissimi, socialmente attivissimi e già inglesizzati pre-adolescenti italiani di oggi?). Mentre guardavamo Dawson’s Creek e ci inviavamo sfigatissimi sms capaci di generare invidie, gelosie, ossessioni, eccitazioni sessuali e amori, un giovanissimo Achille Lauro si preparava, inconsciamente, a diventare il trentenne nazionalpopolare che è oggi.

Se pensiamo al suo percorso (ne avevamo scritto qui) – la trap, Pechino Express insieme a Boss Doms, – anche lui sta lavorando al suo nuovo progetto autonomo: è già uscito il suo primo singolo in inglese, “I want more” – e poi 1969, il nuovo album segue sensatamente l’operazione doppiamente nostalgica dei pezzi portati a Sanremo – il primo, “Rolls Royce”, un riuscitissimo name dropping che mescola passato e presente, il secondo, “Me ne frego”, un meno efficace plagio del primo – sviluppando quel meccanismo di sregolata rielaborazione di una specifica atmosfera del passato che, se ci pensiamo, è lo stesso consolidato da Alessandro Michele con Gucci (che non a caso l’ha scelto come beniamino, trasformando ogni sua apparizione sul palco dell’Ariston nell’evento della serata).

In un annuncio di qualche tempo fa (i suoi haters lo stanno ancora prendendo per il culo), Lauro ha dichiarato che stava lavorando a due nuovi album: col primo ci avrebbe fatto divertire, col secondo avrebbe «cambiato la musica italiana». Siamo dunque al disco del divertimento, e in effetti non si può dire che sia noioso. A partire dalle immagini che lo accompagnano, in cui un Lauro gender fluid, che non né Barbie né Ken, se ne sta impiccato su una croce di Big Babol, oppure appoggiato, completamente nudo – tranne che per un paio di stivali in vinile a mezza coscia, col tacco altissimo – su un’automobile fucsia. I detrattori: che strapalle quelli che si crocifiggono pensando di fare qualcosa di blasfemo e controverso. Ma il punto è che Lauro, molto probabilmente, non aveva proprio intenzione di scandalizzare nessuno: voleva soltanto, per l’appunto, divertirsi.

I pezzi dell’album sono effettivamente “divertenti”, e vantano ospiti di un certo livello, tipo Alexia e Benny Benassi (ma ci sono anche Ghali, Massimo Pericolo, Gemitaiz, Capo Plaza e Annalisa). Il pezzo con Alexia è emozionante, proprio perché sembra di tornare improvvisamente lì, a girare vorticosamente sui calci in culo cercando di tenere d’occhio il ragazzino coi capelli alla Leonardo DiCaprio che, davanti al Bruco Mela, chiacchiera con una che indossa dei pantaloni Phard a vita veramente troppo bassa. Dopo l’intro di Alexia, Lauro riesce a inserirsi sorprendentemente bene, ed è proprio “divertente” il modo in cui si intromette nelle hit che ha collezionato con le sue strofe deliranti, sempre sospese tra il poetico e il patetico. Per rendere il tutto ancora più disarmante, l’ex trapper ha disseminato qua e là frammenti confessionali dalla dubbia qualità letteraria. Il bello è che non danno nemmeno troppo fastidio, perché il potere di Lauro – è lui lo sa benissimo, e “se ne frega” – non è mai stato nella musica o nel canto (anche quando faceva trap, diciamocelo, non era tra i migliori), ma in tutto il resto: la bellissima voce strascicata che fa innamorare le tipe, la bellezza, la presenza scenica, il coraggio di esporsi, il posto vuoto che ha saputo occupare nella scena mainstream italiana.

Di certo, le parentesi parlate hanno destato le ire dei detrattori. In una di queste “testimonianze”, Lauro ricorda che lui e i suoi amici dormivano 3 ore a notte su un materasso per terra. Gli haters sono immediatamente insorti. Per chi non lo sapesse, Lauro è figlio di Nicola De Marinis, docente universitario e magistrato della Corte di cassazione. La sua famiglia non è mica umile, anzi, è composta da alti funzionari dello Stato: il nonno Federico De Marinis era prefetto, e fra i parenti ci sono anche l’ex procuratore della Repubblica di Bari, Michele De Marinis, e il viceprefetto Matteo De Marinis. C’è pure uno zio bancario e assessore provinciale a Perugia. Ma nella sua bio Sono io Amleto, pubblicata con Rizzoli a ridosso della prima partecipazione a Sanremo, nel 2019, Lauro ammetteva chiaramente di avere con la sua illustre famiglia un rapporto complicato. I detrattori sono inviperiti: questo qua, figlio di ricchi, fa il figo perché dormiva su un materasso per terra. Forse dimenticano che di ricchi che si drogano o fanno casino per ribellarsi alla loro famiglia è pieno il mondo, e che molti di questi figli e figlie di papà ribelli hanno modificato la storia della musica, dell’arte, della letteratura e del cinema, oppure, nei casi più modesti, hanno saputo intrattenerci per un po’.

Di sicuro il personaggio Achille Lauro promette bene, perché sta dimostrando di avere quella rara e invidiabile capacità di essere follemente amato o fortemente odiato che lo accomuna a uno dei personaggi pop italiani più potenti in assoluto, Chiara Ferragni. Quando ogni cosa che fai e che dici fa litigare e discutere un casino di gente, vuol dire che, alla faccia di chi ti vuole male, hai conquistato l’attenzione del popolo italiano, e molto probabilmente avrai la capacità di restare. E allora ascoltiamo le frasi poetiche e patetiche del Lauro (che ogni volta ti domandi: ma è completamente scemo o è un genio?) e sulle note di “The summer is magic” e degli Eiffel 65 – può uno essere credibile cantando «blue dabadeedabadie» nel 2020? A quanto pare sì – sognando un passato in cui eravamo scemi e ragazzini (beati noi), restiamo in attesa del secondo album, quello che «cambierà la musica italiana». Chissà se lo farà, di sicuro, in ogni caso, se ne parlerà.