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08:29 giovedì 11 dicembre 2025
Si è scoperto che Oliver Sacks “ritoccò” alcuni casi clinici per rendere i suoi libri più appassionanti e comprensibili Un'inchiesta del New Yorker ha rivelato diverse aggiunte e modifiche fatte da Sacks ai veri casi clinici finiti poi nei suoi libri.
Lo 0,001 per cento più ricco della popolazione mondiale possiede la stessa ricchezza della metà più povera dell’umanità, dice un rapporto del World Inequality Lab Nella ricerca, a cui ha partecipato anche Thomas Piketty, si legge che le disuguaglianze sono ormai diventate una gravissima urgenza in tutto il mondo.
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La Casa Bianca non userà più il font Calibri nei suoi documenti ufficiali perché è troppo woke E tornerà al caro, vecchio Times New Roman, identificato come il font della tradizione e dell'autorevolezza.
La magistratura americana ha pubblicato il video in cui si vede Luigi Mangione che viene arrestato al McDonald’s Il video è stato registrate dalle bodycam degli agenti ed è una delle prove più importanti nel processo a Mangione, sia per la difesa che per l'accusa.
David Byrne ha fatto una playlist di Natale per chi odia le canzoni di Natale Canzoni tristi, canzoni in spagnolo, canzoni su quanto il Natale sia noioso o deprimente: David Byrne in versione Grinch musicale.
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Sempre più persone si uniscono agli scream club, cioè dei gruppi in cui per gestire lo stress invece di andare dallo psicologo ci si mette a urlare in pubblico Nati negli Stati Uniti e arrivati adesso anche in Europa, a quanto pare sono un efficace (e soprattutto gratuito) strumento di gestione dello stress.

Se A Complete Unknown si salva, il merito è del vero Bob Dylan

Un compito senza guizzi, quello diretto da James Mangold, che riesce a vincere perché il mito di Dylan, e il nostro legame con le canzoni, supera ogni difetto.

30 Gennaio 2025

Al supermercato, qualche giorno fa, ho incrociato un uomo che fischiettava “The Times They Are A-Changing” mentre camminava tra la frutta fresca esposta. Anche io avevo nelle cuffie Bob Dylan, però quello già elettrico di Highway 61 Revisited: non ho in mano nessun dato, ma scommetto che in questi ultimi giorni del solito lunghissimo gennaio, in tanti e tante ce ne stiamo andando in giro per le città con la mani in tasca e il collo incassato nelle spalle come prescrive il bobdylancore, preparando i nostri Spotify Wrapped 2025 a essere pieni di “Visions of Johanna” e “It’s All Over Now, Baby Blue”.

Come quando vedevamo su Mtv i video di Richard Ashcroft e ci mettevamo a camminare a spalle larghe, anche A Complete Unknown lascia allo spettatore un effetto emulativo. Le parti musicali, specialmente quelle riguardanti i concerti dal vivo, in cui vediamo Timothée Chalamet travestito da Bob Dylan sono ricostruzioni romantiche ed esaltanti, e anche in sala mi è capitato di ascoltare vicini di posto mugugnare un: «How does it feeeeel» tra i denti durante la proiezione. Queste parti sono le uniche, però, che spiccano nel film di James Mangold. Se A Complete Unknown risulta alla fine un biopic piacevole, una sufficienza senza infamia né lode, il merito è di Bob Dylan stesso, cioè quello vero. Della sua musica, della sua storia, più che della rielaborazione cinematografica.

Il biopic di Mangold è come un confirmation bias messo su pellicola: ci aspettiamo di emozionarci vedendo un concerto del giovane Bob che l’anagrafe ci ha sempre negato (a tutti: Gen X, Millennial, Gen Z, ma ormai anche Boomer), ed eccolo lì: Chalamet identico a Dylan con la straordinaria Monica Barbaro identica a Joan Baez che cantano “All I Really Want to Do” dividendo sensualmente un microfono, Chalamet che per fare una scemata prova un fischietto della polizia e sembra l’attacco perfetto per iniziare “Highway 61 Revisited”, Chalamet che canta davanti a un pubblico estasiato a Newport nel 1963 e nel 1964 e ancora davanti allo stesso pubblico, stavolta arrabbiatissimo, l’anno dopo ancora. Quella volta però suona una Fender, e canta “Like a Rolling Stone”.

Il difetto di A Complete Unknown è la debolezza di quello che rimane del film tutto intorno alla musica. Lo salvano – perché per salvarsi, dicevo, si salva – le prove attoriali, con Barbaro ancora più di Chalamet, e un grande, tenero, sofferente Edward Norton nei panni di Pete Seeger, padre fin troppo buono per quel figliolo prodigo e ribelle. Manca, soprattutto, un’idea dietro alla regia che non sia la semplice volontà di mostrare in due ore gli highlights di quattro anni straordinari. Trovandosi a maneggiare personaggi romanzeschi come Dylan e Baez, Mangold sceglie di lasciar fare tutto alle loro biografie. Non ci mette troppo del suo, non interpreta, non accenna a fare un’operazione vicina a quella di Todd Haynes in Io Non Sono Qui. Barbaro e Chalamet sono grandi imitatori dei veri modelli, li ricalcano in tutto e per tutto, forse troppo: a metà tra il film e il documentario. Come ha scritto chiunque, ci riescono in pieno, ma la macchina narrativa è troppo facile, pulita, rapida. I protagonisti volano sulla trama senza sporcarsi le suole con i dettagli: tutto fila veloce, gli scontri sono compressi in un dialogo solo, Bobby arriva nel Village e subito va a trovare Guthrie e ci diventa amico, subito trova una ragazza e una casa, poco dopo un’amante, e già lo vediamo scrivere i suoi capolavori nelle notti insonni e anche qui tutti i versi gli vengono al primo colpo. Quando canta a Newport per la prima volta “The Times They Are A-Changing”, tutti nel pubblico ne capiscono al volo l’importanza (subito: cioè nel giro di 40, 50 secondi), e si emozionano e applaudono e imparano a memoria la canzone nel giro di una strofa. Mi è venuto in mente quando, in programmi come Quark, degli attori vestiti da centurioni romani mostrano alle telecamere come si forma la testuggine, in una radura della Media pianura vicentina.

Il Dylan di Mangold fa un po’ lo stronzo con Suze Rotolo, la sua prima compagna italo-americana, la tradisce e la abbandona e poi torna da lei solo per qualche senso di solitudine e colpa (oggi tutto questo un nome: gaslighting, orbiting), e fa lo stronzo anche con Joan Baez – «le tue canzoni sembrano quadri appesi nello studio di un dentista», le dice una mattina, e in un concerto, ancora prima, dice è «pretty», e che scrive canzoni «pretty», ma forse «too pretty». Poi fa lo stronzo con Pete Seeger, padre da uccidere inevitabilmente per la sua rivoluzione elettrica, ma nonostante questo Mangold dirige un’agiografia in cui Dylan non incontra ostacoli né difficoltà. Sappiamo che i suoi inizi al Village non furono facili, che la sua stranezza non fu ben recepita, che i primi concerti terminavano talvolta senza un applauso. Nel film intravediamo la delusione per la volontà della Columbia di incidere un disco di sole cover, ma passa in fretta. Così come passa rapida l’angoscia per la fama, mentre non c’è traccia dei problemi con la droga che pure esistettero – e che furono così importanti in un biopic completamente diverso e riuscito, ovvero Walk The Line, su Johnny Cash.

Tutti questi accenni di difficoltà, di realtà, si possono condensare in due minuti, e non in due ore: ed è per questo che il trailer di A Complete Unknown è un grande trailer che fa, come si dice, un po’ troppo upselling. Alla fine la parte musicale riesce a salvare il film, e i centoventi minuti al cinema scorrono con piacere, magari canticchiamo anche noi un: «To be without a hooome», e arrivano a solleticarci gli occhi con certe discrete punte di commozione. Ma è tutta opera dello stomaco e del cuore, c’è poco merito nell’arte di Mangold: il lavoro lo fanno le emozioni che nascono dalla figura “larger than life” di Dylan, dalle sue canzoni, dai ricordi personali a cui tutti le abbiamo attorcigliate, da quei significati lì. Difficile sbagliare, con uno così.

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