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Michael Hastings, 33

La tragica scomparsa del reporter che diede una grande lezione: se un articolo è forte e ben fatto, non c'è crisi dei media che tenga.

19 Giugno 2013

La notizia della morte ieri in un incidente stradale del reporter Michael Hastings ha fatto il giro del mondo e colpito moltissime persone in pochissime ore. Questo perché, come ricorda il suo direttore Ben Smith nel suo obituary, Hastings era talento puro, uno dei migliori reporter della sua generazione. Salì agli onori delle cronache per lo scoop con cui nel 2010 fece dimettere il generale McChrystal, pubblicato da Rolling Stone. E poi anche, almeno per noi addetti ai lavori, per il suo passaggio epocale l’anno scorso a un media nuovo al giornalismo d’inchiesta come BuzzFeed.

Nella seconda occasione, quella del matrimonio fra Hastings e BuzzFeed scrissi un articolo per Il Foglio intitolato “Hastings o il giornalismo di qualità ai tempi del social publishing”, che potete trovare qui.

Nella prima invece, sempre per Il Foglio, scrissi un pezzo a margine della vicenda, concentrandomi sugli effetti sull’industria mediatica che la pubblicazione di quello scoop ottenne. Il succo era (ed è): quando un articolo è scritto come si deve riesce ancora a cambiare il corso delle cose, non c’è rivoluzione digitale o crisi dei media che tenga.

Eccolo qui di seguito:

Il Foglio, giugno 2010

Le conseguenze del colpaccio messo a segno nel giugno scorso dal collaboratore di Rolling Stone Michael Hastings, sono state sostanzialmente due.

Una, la più importante ovviamente, quella tutta politica dell’immediata rimozione dal suo incarico del Generale McChrystal da parte del presidente Obama, di cui si è abbondantemente parlato. L’altra – marginale ai fini politico-militari ma non secondaria per chi ha cuore il presente e il futuro giornali – quella di aggiungere materiale fresco all’infinito dibattito sul ruolo dei media.

L’improvviso rimbalzare di una testata come Rolling Stone – storica ma per molto tempo pressoché irrilevante nel dibattito pubblico americano – in praticamente tutti gli editoriali di prima pagina dei più importanti quotidiani del mondo, ha fatto scattare una serie di riflessioni su quale possa essere oggi la funzione della stampa cosiddetta leggera, cioè di quelle riviste periodiche che da sempre, negli Stati Uniti soprattutto, propongono un mix di editoria di costume ultra-light e di giornalismo di approfondimento di qualità, che spesso ha finito per andare a discapito di quest’ultimo.

Il problema esiste e non è un caso che sul numero dello scoop di Hastings la copertina fosse dedicata a una discinta Lady Gaga. Ma al di là delle più o meno opportune scelte di chi dirige queste riviste, quello che ci si deve legittimamente chiedere è cosa e come – in un’occasione unica di grancassa mediatica come quella del caso McChrystal – Rolling Stone possa averci guadagnato in quanto impresa editoriale.

La questione l’ha posta Hamilton Nolan sul sito gawker.com, arrivando a diagnosticare per la nota rivista musicale, ma anche per altri autorevoli player del settore come Vanity Fair e Esquire, quella che lui definisce Good stories, Bad magazine syndrome. Che sarebbe quella sindrome per cui, nonostante queste testate producano una serie non indifferente di valide storie giornalistiche, non sono comunque in grado di vincere lo scetticismo del lettore forte nell’acquistarle in edicola su base regolare o addirittura nell’abbonarvisi.

E questo avverrebbe, secondo Nolan, per due motivi: primo, la formula di mischiare starlette pop e giornalismo di guerra è ormai sorpassata e fa perdere di credibilità al magazine nella sua totalità. Secondo, parecchi giorni prima che il numero uscisse in edicola, la singola storia era leggibile in versione integrale e da chiunque su Politico e sul sito di Time ancora prima che sulla versione web di Rolling Stone, rendendo di fatto secondaria la posizione della rivista che aveva commissionato il pezzo.

Anche se su quest’ultimo punto David Carr sul New York Times ha sollevato più di un dubbio riguardo la legittimità del comportamento di Politico e di Time, è indubbio che la seconda questione posta da Nolan ci porta dritti a un quesito cruciale per il futuro dei media: come le singole testate possono conservare il loro ruolo originale in un sistema editoriale che tende ormai a far circolare i singoli pezzi in maniera indipendente?

Jason Fry, esperto di comunicazione ed ex editorialista del sito del Wall Street Journal, nel riprendere il pezzo pubblicato su Gawker, ha sostenuto che in realtà il cuore del problema sollevato da Nolan è quello della frammentazione dei contenuti, e non riguarda affatto solo le cosiddette riviste leggere, ma è qualcosa con cui in tutti i media devono urgentemente confrontarsi.

Quello che Fry allarmisticamente fa notare, è che sostanzialmente il lettore ormai tende a svolgere da sé quel ruolo di aggregatore e selezionatore di diversi contenuti che i giornali hanno sempre ricoperto e che di conseguenza il rischio di incoerenza o di non congruità dei principi secondo i quali una redazione presenta le proprie storie e i propri articoli agli occhi di legge, vale per tutti i tipi di media e non solo per chi mescola in maniera più o meno azzardata Lady Gaga e il Generale McChrystal. La soluzione, sempre secondo Fry, starà nel trasformare gradualmente i giornali in produttori non più di piattaforme, ma di singoli contenuti da vendere sul modello delle applicazioni che oggi diffusamente scarichiamo sui vari device.

Tutto legittimo, anche se rimane da capire che cosa in futuro – se spariscono i media come realtà che sì aggregano e selezionano ma che in fin dei conti soprattutto producono e verificano – resterà da frammentare.

Anche perché in fin dei conti se Rolling Stone, copertine a parte, non avesse pubblicato l’articolo di Hastings, McChrystal non sarebbe stato rimosso. E questo è forse l’unico aspetto incontrovertibile della vicenda.

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