Dopo aver dato l’ultimo via libera al ponte sullo Stretto, la premier ha accompagnato la figlia all’attesissimo concerto della band coreana.
Negli anni ’70 e ’80 e ’90 – e primi anni Zero, via – pochissimi articoli iniziavano con premesse del tipo “È difficile spiegare a chi ha meno di 35 anni quanto sia stato importante XY nella società italiana”. Oggi sono sempre più frequenti, e questo ci dice un po’ di cose. Una tra queste è che insistiamo col fantasticare che chi ha meno di 35 anni legga degli articoli. Un’altra è che spesso questa premessa la facciamo per noi stessi, che c’eravamo, ma in molti casi, come i protagonisti di IT di Stephen King, abbiamo dimenticato.
Oh, non fraintendete. Tutti ricordiamo Pippo con le vallette, Pippo con il (tentato) suicida, Pippo con Beppe Grillo, Pippo con Katia Ricciarelli, Pippo con Roberto Benigni, Pippo con Laura Pausini (e con Bruce Springsteen e i Duran Duran e Whitney Houston e chiunque vi venga in mente). E quello che non ricordiamo subito, ce lo ricorderanno decine di migliaia di pagine di Facebook e X e Instagram in caccia di condivisioni e nostalgie, oppure i meme ironici. Magari qualcuno ripescherà il Tenerone che diceva Pippopippopippo, istruito dal suo hater Antonio Ricci. Altri ricorderanno il patteggiamento dopo l’accusa di concussione (il cosiddetto Scandalo Telepromozioni, in cui furono coinvolti anche Mara Venier e Rosanna Lambertucci).
Il Presentatore
Quello che è più difficile ricordare è quanto Pippo Baudo sia stato Il Grande Centro di questa nazione, e non solo dal punto di vista dell’intrattenimento. Non era nemmeno una questione di ambizione, era una predisposizione naturale a governare la scena: a differenza di Mike Bongiorno, nel quale Umberto Eco aveva notoriamente individuato la propensione a fingersi meno intelligente dello spettatore medio, Baudo era un animale da spettacolo assoluto, prendeva possesso senza pudore e con naturalezza del palco e della telecamera, e anche i suoi ospiti più prestigiosi ruotavano attorno a lui. Da subito, tre giorni dopo aver preso la laurea in Legge (Diritto del Lavoro), aveva dichiarato ai preoccupati genitori che voleva andare a Roma a fare il Presentatore. Non era ancora una vera professione, negli anni del boom economico. Ma lui aveva capito. Ancora prima che il mezzo fosse pronto per il messaggio.
Fu paziente, si fece anni di gavetta in Rai dietro i Mike e i Corradi per perfezionare la presenza, i tempi e il linguaggio del corpo almeno quanto la dizione, mai provinciale e dialettale, anche quando enfatizzava una parola magica che grazie a lui viene ripetuta da molti boomer per fare ironia: “i gggiovani”. Una delle parole che sapeva usare per sintonizzarsi, come osservò Edmondo Berselli, «con le classi medie, un pubblico medio, una sensibilità media. Senza squilli reazionari o strilli avanguardistici, ma pronto a far suo il penultimo paradigma del consenso popolare». Non l’ultimo, no: il penultimo.
Che comunque per RaiUno era già tanto, e rispetto al palinsesto di oggi sembrerebbe scrittura altissima, mai sciatta e volgare. Certo, gli piaceva far intuire la sua cultura, ma non ci si specchiava: il suo vero compiacimento era trascinare il moderno nella tradizione, disinnescare le mine vaganti. Beppe Grillo, sua creatura, è un esempio eccellente, fino a quando, per una battuta sul Partito Socialista, Baudo non affermò in diretta che il comico aveva “smarronato”. Per Grillo, poter dimostrare di aver contrariato Pippo Baudo comportò un primo titolo di merito nella sua personale marcia verso il Potere.
Il Manipolatore
L’arte manipolatoria di Baudo comunque toccò il culmine nella sua arena preferita, il Festival di Sanremo. Malgrado il pantheon di presentatori cui è stata affidata nei secoli, la Sacra Kermesse della Canzonetta Italiana ha maturato la sua forma pressoché definitiva nonché il suo strapotere mediatico negli anni ’80 grazie a lui, a partire dal mantra implacabile da lui escogitato: “Perché Sanremo è Sanremo”. Ed è con lui che, in fin dei conti, si sono misurati tutti i suoi successori. Anche se in fondo lo facevano ogni giorno anche i colleghi dell’epoca, anche quelli che ostentavano la propria distanza. Tanto per fare un piccolo esempio, Renzo Arbore, peraltro uomo Rai come pochi, nel 1986 pubblicò un vendutissimo disco di canzoni goliardiche (“Il clarinetto”, “Tu vecchia mutanda tu”, “Sfigato mambo”) sulla cui copertina raffigurò se stesso da vecchio, su una sedia a rotelle, intento a guardare Baudo in tv: anziano anche lui ma ancora in televisione, sorridente e inarrestabile (poi nella realtà è successo il contrario, o quasi).
Ma quella era un’epoca in cui decine di milioni di spettatori erano consapevoli, e forse oggi lo hanno, lo abbiamo dimenticato, che quando Baudo entrava in scena nessuno stava guardando semplicemente un presentatore: quello che gli italiani guardavano, chi ammirato e soggiogato, chi esasperato ma rassegnato, era un magistrale esercizio di potere. Baudo si proclamava senza problemi democristiano («Non significa appartenere a un partito: è un modo di intendere la vita»), ma a un certo punto contava più lui del Partito di Governo. Tanto da dare, in proporzione, molto più fastidio. E forse per questo il suo partito lo sfruttò ma non lo protesse granché, pur essendo il più centrale dei partiti.
A parte (forse) una vendetta per la battuta di Beppe Grillo, con le logiche di oggi è difficile spiegarsi del tutto la collisione diretta col presidente socialista della Rai, Enrico Manca, che nel 1987 lo accusò di fare esattamente quello che Baudo sentiva come sua missione: i famosi programmi “nazionalpopolari”. Guardacaso, fu proprio per fare quelli – oltre che per sottrarlo alla concorrenza – che Silvio Berlusconi, all’epoca in area socialista pure lui, gli fece un’offerta di quelle che non si rifiutano: un contratto di 50 miliardi di lire (che nel 1987 erano un po’ più di 50 milioni di euro) per fare il direttore artistico delle sue reti.
Non fu un affare per nessuno. A detta di Baudo, gli altri ex Rai passati alle reti Fininvest, Maurizio Costanzo, Corrado, persino Mike Bongiorno, che forse oggi in qualche pagina Facebook vengono rappresentati mentre lo accolgono sorridenti in paradiso come i santi che ci meritiamo, non presero bene il suo arrivo. Antonio Ricci, nei secoli il più fedele esponente della tv berlusconiana, non smise di bersagliarlo. Baudo resistette un anno, poi se ne andò restituendo i soldi. Ma non perché la Rai gli aveva fatto ponti d’oro: rimase in panchina a lungo prima di recuperare il suo scettro e riproporre il suo paradigma a Sanremo: invitando gli imprevedibili Elio & Le Storie Tese, ma taroccando i voti, per il bene della nazione, di fronte alla marea di voti a loro favore.
Il Maestro senza eredi
Fino a questo secolo. Quando è finito il Grande Centro della politica. È finito il Grande Centro della televisione, col suo “pubblico medio”. Ed è finito anche il potere di Baudo, come del resto di qualunque personaggio tv – inutile indicare eredi, non ci sarà mai più niente di simile.
A dire il vero, è finito il suo potere ma la sua pagina Wikipedia rivela che negli ultimi vent’anni ha fatto una quantità impressionante di cose. E in effetti, anche a chi si è ritrovato a usare l’aggeggio soprattutto per guardare Netflix o Sky o Disney, capitava di vederlo comparire da qualche parte – ma lasciando sempre una sensazione di dignitoso, orgoglioso declino. Ogni tanto faceva notizia per nuove liti con qualche politico: su tutti, uno che prima schifava i meridionali e ha ottenuto di costruire il ponte che collegherà alla Calabria la Sicilia di Baudo. Qualcuno in queste ore ha già proposto di intitolarlo a lui. Cosa che potrebbe portare a qualche faceto meme sui suicidi che per buttarsi scelgono il Ponte Pippo Baudo. Potrebbe succedere davvero, in fondo sarebbe l’ennesima forma di nostalgia generazionale, ben nota ai poteri odierni.