Il funerale del Papa ha portato alla definitiva affermazione di un trend iniziato con il film Conclave e che, con ogni probabilità, ci porteremo dietro fino al conclave quello vero: inizia l'estate del Vatican-core.
Con la morte di Papa Francesco, i piccoli ecosistemi dei vaticanisti sono stati stravolti. Il martedì successivo, mentre sui social le prime foto del papa esposto nella camera ardente di Casa Santa Marta sostituivano le grigliate di Pasquetta, l’ingresso della Sala stampa vaticana in via della Conciliazione cominciava a pullulare di fotografi e giornalisti in attesa di un accredito. Nei giorni successivi ne avrebbe emessi 6mila: una fila disordinata e disperata per un tesserino di plastica del costo di dieci euro (solo in contanti) che avrebbe aperto loro varchi nelle folle e aperto ingressi, alla stregua del bastone mosaico.
Questi accrediti temporanei – incluso il mio – si sono aggiunti ai seicento accrediti ordinari, le chiavi petrine in possesso dei giornalisti di punta della stampa italiana ed estera, da Repubblica al New York Times: Iacopo Scaramuzzi, Franca Giansoldati, Francesco Antonio Grana… Le firme lette per anni era tutte lì, assiepate come articoli top di gamma, anche loro parte di una gerarchia dell’informazione che – di riflesso con quella ecclesiastica – definisce cronisti di serie A e di serie B. Il giornalismo vaticano è anche questo: una piramide sociale, alla stregua di quelle che studiavamo sui libri di storia, dove i valvassini non sono valvassori per il bioma d’Oltretevere.
I veterani
Accanto a loro, il top dell’informazione vaticana, ci sono i vaticanisti in pensione: nei giorni susseguenti la morte di Papa Francesco erano come satelliti gravitanti intorno alle testate più prestigiose, danno opinioni, forniscono indirizzi. L’esperienza per un vaticanista è tutto, ci vogliono almeno 15 anni per modellarsi se si vuole avere il quadro di una istituzione con duemila anni di storia. È come una specializzazione della specializzazione universitaria, alla fine l’imbuto arriva per tutti, con buona pace di Francesco. È il prezzo da pagare per fare la differenza in un mondo eternamente competitivo, dove l’informazione passa dalle fonti a disposizione. È la legge aurea del giornalismo in generale, ma quello vaticano ha una sottigliezza sua propria, la fonte non è mai il portiere che ti fa una rivelazione, come mi spiega Luis Badilla, un veterano del mestiere: «Dietro un grande vaticanista c’è un grande gerarca ecclesiastico» dice. Fino a poco tempo fa, Badilla curava il sito Il Sismografo, all’apparenza un collettore di notizie vaticane, ma anche ben altro, visto che la scelta di cosa pubblicare dettava un indirizzo per molti vaticanisti della carta stampata: «Era come Dagospia: tutti lo leggevano ma nessuno lo diceva».
Badilla, che ha vissuto cinque conclavi, ha visto nascere i vaticanisti in un mondo che, fino alla metà degli anni Sessanta, non aveva neppure una sala stampa. Dal Concilio Vaticano II, è cambiato tutto e i primi preti che narravano cerimoniali e liturgie della Santa sede sono stati sostituiti da tecnici, esperti di nomenklatura, pontieri fra una sponda e l’altra del Tevere. Essere vaticanista è anche questo. L’ho sperimentato anche io quando ho iniziato a occuparmi di Vaticano. Partivo da zero, senza conoscenze né grammatica. Poi accade che la fonte arriva da sola e, con un po’ di fortuna, dalle stesse mura leonine: il costo del personale vaticano ammonta al 34 per cento delle uscite economiche totali, i dipendenti che vogliono parlare aspettano solo l’occasione giusta – Vatileaks docet.
I vaticanisti canonici hanno lavorato seguendo questo metodo, con le loro analisi di retroscena: conteggio di voti, nomi dati per certi e così tante informazioni dettagliate che, nella rassegna stampa del mattino, io e i giornalisti più giovani eravamo spesso smarriti. Ne parlavo con Giulio, un giovane collega italiano, e Marina, giovanissima giornalista spagnola, chiedendomi come fosse possibile, iniziato il Conclave, che i giornali rilanciassero retroscena così dettagliati con il Vaticano schermato e un vincolo di segretezza che prevede la scomunica.
I novizi
Mai come questa volta, però, l’elezione del nuovo pontefice è stata al centro dei social: podcast a tema, tweet, reel creati con l’AI, tutto era un ingrediente nel mercato dell’attenzione, come scrive Daniel Immerwahr sul New Yorker tradotto da Internazionale: «Otteniamo quello che vogliamo, non quello che vorremmo volere: potrebbe essere lo slogan dei nostri tempi. Dato che anche gli utenti dei social network ricevono reazioni immediate, imparano cosa attira gli sguardi». E così, accanto all’andirivieni discreto dei vaticanisti con esperienza, si è aggiunto un altro mondo, quello dei divulgatori e content creator e dei giornalisti Gen Z, coi loro tripodi e faretti puntati nella piazza, il Cupolone quale set perfetto. I maratoneti veri sono stati loro: giovani, giovanissimi, che da soli erano in grado di tenere dirette lunghissime, sorridere nel marasma e raccontare la piazza che si riempiva e svuotava di turisti e fedeli nei giorni immediatamente l’elezione. Così ho conosciuto Mattia e Virginia, entrambi argentini che per trasmettere live lavoravano di notte. Ho legato con molti di loro, stranieri: Virginia, Quentin, Marina, Mattia. A tutti loro bastano i nomi di battesimo, ad indicare il basso livello di autoreferenzialità che ha il giornalismo più giovane, quello curioso che si butta a capofitto nella materia, ma è altrettanto attento alle modalità di narrazione.
Tutti, però, abbiamo fatto un errore: nel primo conclave dell’era social, abbiamo sottovalutato il peso, fra i cardinali, di Whatsapp o Telegram: abbiamo pensato che un Collegio cardinalizio così composito non si conoscesse, senza pensare che un pre Conclave lo avrebbe tenuto Meta, il tempio di oggi. Presi dal raccontare un piccolo mondo antico, siamo caduti nei luoghi comuni della narrazione, come se sacro e profano fossero due eserciti in una guerra culturale destinata a infiammarsi.
Il Papa con l’Apple Watch
Me ne sono accorto quando, in un filmato ripostato negli Stati Uniti, John Prevost riceve una chiamata dal fratello appena eletto col nome di papa Leone XIV via FaceTime: noi, tutti presi a rispolverare la sintassi ottocentesca della Rerum Novarum di Leone XIII, mentre il suo successore indossa un Apple Watch e forse avrà sul comodino, accanto al rosario, una coppia di AirPod. Quando, all’inizio del Conclave, il Governatorato della Città Stato vaticana ha staccato le linee telefoniche, avremmo dovuto pensare che, dove nessuno ti vede tranne Dio, può esserci anche l’occhio di Meta. E così, in un tempo incredibilmente breve, la Sede vacante è diventata un ecosistema di tante cose. Quando la Sala stampa chiudeva, piazza Pia e via della Conciliazione si riempivano di puntini luminosi. Accanto alla torre delle televisioni, si facevano strada piccoli fari che illuminavano una persona sola, pronta a fare dirette quando, dall’altra parte dell’Oceano, era pieno giorno. Ritmi estenuanti, mi ha raccontato Virginia, che da almeno tre settimane ha poche ore di sonno e ha procrastinato la sua voglia di dormire.
Abbiamo cercato insieme di trovare fonti attendibili, di confrontarci e passarci indiscrezioni. Abbiamo cercato di riempire, a nostro modo, il vuoto che un papa ha lasciato dopo dodici anni, in attesa del nuovo. Lo volevano gli editori, sempre affamati di contenuti. Lo pretendevano i social. In queste settimane il Vaticano è stato l’arena di un mondo non solo geopolitico, ma anche culturale.