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A che serve scrivere di sé secondo Elif Batuman

Abbiamo incontrato a Milano l'autrice dell'Idiota e di Aut-Aut: con lei abbiamo parlato di narrativa e autofiction, di corpi e di bugie, e di quanto tempo ci vuole a finire La storia di Elsa Morante.

24 Settembre 2024

Se esiste davvero una risposta precisa alla domanda sulla distinzione tra romanzo e autofiction la scrittrice turco-statunitense Elif Batuman risponde continuando a stare nella zona grigia tra le due categorie. A partire dai suoi romanzi e in particolar modo L’idiota e Aut-Aut – che raccontano le pastose avventure di Selin Karadaǧ, studentessa di Harvard che cerca di destreggiarsi tra conoscenza, letteratura e scrittura – ai suoi articoli per il New Yorker, la scrittura di Batuman non si è mai posizionata nettamente in un genere; al contrario, ha sempre lavorato sui bordi delle categorie narrative, creando una commistione di narrativa, autofiction e personal essay in costante dialogo con la scrittura stessa, diventando un balsamo per chiunque abbia mai pensato di scrivere.

Incontro Elif Batuman in un venerdì pomeriggio limpido, forse il primo vero giorno di settembre. Si trova a Milano per 2084 – Le meraviglie del possibile, un piccolo festival letterario organizzato dalla Scuola Belleville che l’ha invitata per un incontro su narrazioni del mondo e prospettive. La raggiungo al suo albergo vicino a Porta Romana e ci incontriamo nella hall che assorbe e attutisce la frenesia milanese di questi giorni. Sono l’unica persona nella hall quindi quando appare dall’ascensore ci muoviamo una verso l’altra in automatico. Lei ha i capelli raccolti e la postura di chi è alto da sempre, cosa con cui empatizzo immediatamente; io un paio di calzini con i bassotti che la distraggono positivamente dal momento in cui ci appartiamo in uno spazio quasi liminale: luce soffusa, piccoli divanetti arancioni, un leggero brusio di sottofondo di un ascensore che sale e scende.

ⓢ Nelle prime pagine de L’idiota parlando di email e tecnologia scrivi «Le cose stanno cambiando a una velocità incredibile». Mi sembra faccia riferimento anche al grande tema dei tuoi romanzi, la metamorfosi tra l’adolescenza e la prima fase dell’età adulta, dove crediamo sia tutto immediato. Cosa significa scrivere di cambiamento, per te?
Ci sto pensando molto in questo periodo, mi sembra che il cambiamento sia il vero materiale dei romanzi: ciò che le persone sono, il motivo per cui scrivono, è catturare questa cosa. Una delle teorie del romanzo di György Lukács è proprio che il romanzo riguarda un tempo che è stato superato e che riscrivi da un altro momento. Ultimamente ho riflettuto molto su come i romanzi siano stati in un certo senso definiti da persone sui quarant’anni che guardano indietro alle idee dei loro vent’anni e vedono come siano già superate. Quando hai vent’anni pensi che quella sia la realtà, poi invecchi e dici: ok, una parte di quella era realtà, una parte era solo gli anni Novanta.

ⓢ L’idiota e Aut-Aut raccontano un lasso di tempo contenuto e vicino e al contempo la loro stesura è molto lontana: L’idiota è stato scritto quando avevi ventitré anni e Aut-Aut in tempi più recenti. Come ti sei approcciata al cambiamento, tuo e di Selin, mentre scrivevi?
Il primo si basava su molto materiale che avevo scritto già all’epoca, quando l’ho ripreso in mano a trent’anni è stato più un lavoro di editing che di scrittura. La cosa di cui ero più consapevole era il cambiamento avvenuto in tutti quegli anni in cui non l’avevo guardato. L’inizio parlava di email e quando l’ho scritto non pensavo fosse così rilevante. Quando poi l’ho riletto mi sono accorta che era un romanzo storico e che volevo mettere in risalto quegli aspetti. Se penso a Middlemarch o L’età dell’innocenza, sono tutti libri scritti circa trent’anni dopo il periodo di cui parlano: contengono più dettagli, cose che non ti verrebbe in mente di scrivere prima, che comprendi solo con il passare del tempo. Tra il 2015 e il 2020 sono cambiate molte cose: il MeToo, Trump, il fascismo ovunque; poi la Brexit, un colpo di stato in Turchia, la mia prima relazione lesbica. Con Aut-Aut volevo scrivere un libro in cui non menzionavo nulla che fosse successo dopo il 1997, ma volevo che il lettore contemporaneo fosse in grado di vedere certe cose che i personaggi del libro non potevano vedere.

ⓢ Selin sembra cercare la verità su di sé e quello che la circonda attraverso i libri. Credi che leggere rivedendosi nella letteratura sia qualcosa di abbagliante o di illuminante?
Bellissimo che tu mi faccia questa domanda perché ho fatto un sogno su questa cosa la notte scorsa. Ho sognato che leggevo dei libri e cercavo al loro interno delle risposte e invece trovavo solo più enigmi. Questa è davvero la domanda su cui sto riflettendo in questa fase del nuovo libro, sento di essere alla ricerca di indizi, nella vita come nei libri, e mi sembra significativo il fatto di cercare qualcosa, che è poi simile a quello che facciamo con l’interpretazione dei sogni: quando scomponi il significato per trasformarlo in una storia. Mi sembra sia lo stesso che fa la critica letteraria, e ultimamente mi sono chiesta se otteniamo qualcosa oltre a queste storie ricche di dettagli.

ⓢ Ho letto che questo romanzo ti ha dato l’occasione di ripensare agli stereotipi che società e letteratura ci suggeriscono quando pensiamo all’amore.
Rispetto a Selin credo di aver messo in discussione queste questioni molto più tardi, quando mi sono avvicinata al femminismo e alle teorie queer e ho avuto la possibilità di riflettere sull’eteronormatività, le forme narrative e su come spesso nella narrazione delle relazioni ci sia una negoziazione, una dinamica coercitiva, fallimentare. Ripensare a queste cose è stato molto importante e nell’ultimo anno mi sono spesso chiesta: se la vita non è una ricerca di questo tipo di storie d’amore destinate a fallire, allora qual è il vero ruolo dell’amore nella vita umana? Come si colloca quello che chiamiamo Eros se non in queste relazioni eterosessuali destinate a fallire? Deve essere da qualche altra parte, non può non esserci, altrimenti nessuno avrebbe voglia di vivere.

ⓢ Una nuova letteratura, più onesta e priva di questi schemi e menzogne, può rieducarci?
Sì, credo che le regole della menzogna siano radicate nei romanzi, e soprattutto quelle scritte per le donne sembrano pensate per torturare gli uomini e collegate all’idea di un amore che deve essere abbastanza eccitante per dare un senso alla vita. Come se fosse necessario un rinforzo intermittente: se prima c’è qualcosa di buono poi deve esserci qualcosa di brutto e così via. Ho pensato molto a queste cose nella mia attuale relazione con una donna perché, e non so come non generalizzare, è semplicemente onesta.

ⓢ Senza quel tipo di menzogna?
Sì, è diverso da tutto quel mistero. E penso sia meglio, la mia energia ora è sprigionata in un campo più ampio, è ancora un po’ confuso perché continuo a elaborare gli indizi ma non so a cosa servano. Una volta che hai l’amore senza quella menzogna ci sono altre cose, come il sapere, la politica, la bellezza.

ⓢ In questo romanzo c’è una grande fisicità. Il cancro della madre, la dieta della sua amica Svetlana, e poi i corpi e il sesso: Selin è a contatto con la sostanza più corporea delle persone. Come ti sei approcciata a questo aspetto?
Non ho mai pensato che il cancro della madre e la dieta di Svetlana fossero legati al corpo, ma ovviamente lo sono. Non ci avevo pensato consapevolmente, ci penso a volte quando penso al cambiamento, tipo mentre cammino. Per esempio, stavo camminando per strada a New York e pensavo: wow, cosa è rimasto uguale a com’era vent’anni anni fa? Ed era tutto legato ai corpi, al fatto che l’unica cosa irriducibile è che siamo corpi che dobbiamo continuare a muovere, e a volte è facile dimenticarlo.

ⓢ In tutta la tua produzione rifletti costantemente sullo scrivere di sé. Selin si pone le stesse domande, trasformando i tuoi libri in un agglomerato denso e al tempo stesso sinuoso di narrativa, autofiction, personal essay e saggio. Come nasce un tuo libro?
Quando ero più giovane volevo trovare un’espressione pura e autentica, ora capisco che non abbiamo davvero accesso a qualcosa di non mediato, senza una forma. Tutti i generi e le forme sono un po’ artificiali. Però sto pensando anche ai modi in cui possiamo cambiare queste forme per fare altre cose e rimanere fedeli a quello che sentiamo: per me è una combinazione di quello che leggo, quello che il mio corpo sta vivendo, quello che le persone dicono. In questo periodo sto pensando molto a qual è la differenza tra autofiction e personal essay, chiedendomi dove si inserirà quello che sto scrivendo ora. Ho molte domande a riguardo e trovo che la newsletter sia molto utile come spazio per lavorare alle cose come fosse un diario che però mi costringe a un ordine e alla condivisione.

ⓢ Come una bozza della bozza dei tuoi lavori?
Sì, un po’. È bello poter condividere con le persone, diventa meno solitario. Se ci pensi: qual è lo scopo della scrittura? È comunicazione o espressione di sé? È qualcosa a metà strada, alla fine è piacevole comunicare con le persone attraverso la tua scrittura.

ⓢ La scrittura smette mai di essere un corpo a corpo?
Per me scrivere è ancora una battaglia, ma una battaglia migliore che in passato. Prima la questione era: sarò in grado di scrivere o dovrò fare tutte queste alre cose stupide? Invece ho scoperto che è possibile costruirsi una vita, scrivere i propri libri, trovare i propri lettori. Rimane una lotta, però legata alle cose che alla fine trovi più significative di tutte. Quindi se è una battaglia, non desidero fare altro.

So che hai passato del tempo a Roma quest’estate per lavorare al prossimo libro su Selin. Cosa possiamo sapere del suo futuro?
La sua carriera assomiglierà alla mia, fa un dottorato, lavora come giornalista e vuole scrivere un romanzo, simile a L’idiota o Aut-Aut. Quello che sto scrivendo ora è un po’ una conversazione con questi libri, ma anche con cose che sono accadute nel periodo tra quei libri e il presente. Penso che il nuovo libro andrà avanti e indietro tra il tempo in cui lo sto scrivendo e il tempo della storia. E ci saranno molti ricordi.

ⓢ C’è qualcosa della letteratura italiana che ami, hai scoperto o che influenza la tua scrittura?
Ho iniziato a venire in Italia nel 2015 quando ho vinto la borsa di studio della Fondazione Santa Maddalena, momento in cui ho lavorato a L’idiota. A dire il vero la prima volta che sono venuta è stato per una maratona dantesca a Firenze: Dante è molto significativo per me e lo è diventato sempre di più. Conosco Natalia Ginzburg e, ovviamente, Elena Ferrante. Ho anche iniziato a prendere lezioni di italiano, non parlo molto bene, ma riesco a leggerlo. Ho letto un paio di libri come Io e te di Niccolò Ammaniti, che mi è piaciuto molto; ho iniziato a leggere La storia di Elsa Morante, ma mi ci vorranno trent’anni anni per finirlo.

Aut-Aut si apre con un esergo di Kierkegaard sui libri che molto spesso non fanno altro che confondere le persone, senza insegnar loro come si vive. Quali sono i libri che ti hanno insegnato a vivere?
Credo che Epitteto sia stato molto utile per me, come anche Simone de Beauvoir con L’etica dell’ambiguità. Ovviamente Alla ricerca del tempo perduto dice molto su come vivere la vita in modo significativo ma è anche molto deprimente. Hai la sensazione che abbia commesso un errore che doveva commettere, che è un pensiero molto cristiano. Spesso è come se i romanzi avessero incorporata quest’idea dell’errore felice. Come a dire: ho fatto questo sbaglio terribile, ma doveva succedere.

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