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La Rai vorrebbe abbandonare Sanremo (il Comune) e trasformare Sanremo (il festival) in un evento itinerante Sono settimane che la tv di Stato (e i discografici) litigano con il Comune: questioni di soldi, pare, che potrebbero portare alla fine del Festival per come lo conosciamo.
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In Giappone è stato condannato a morte il famigerato “killer di Twitter” Takahiro Shiraishi è stato riconosciuto colpevole degli omicidi di nove ragazze. Erano tre anni che nel Paese non veniva eseguita nessuna pena capitale.
Per sposarsi a Venezia e farsi contestare dai veneziani Bezos ha speso almeno 40 milioni di euro Una cifra assurda che però non gli basta nemmeno per entrare nella Top 5 dei matrimoni più costosi di sempre.

Tár, il trionfo delle donne orribili

Nel film di Todd Field, Cate Blanchett interpreta una donna carismatica e di successo che usa il suo potere con meschinità, proprio come farebbe un uomo.

14 Febbraio 2023

Non so chi sia Todd Field, ho dovuto googlarlo dopo i primi dieci minuti di Tár, come se si trattasse di un regista esordiente. Il suo ultimo lungometraggio è del 2006, Little Children, mai sentito. Stando alla sua pagina Wikipedia non ha letteralmente fatto niente negli ultimi quindici anni. Immagino più o meno così la mia pagina (se mai ne avrò una): data di nascita e data di morte, in mezzo: nulla. Uno scherzo situazionista. Mi piace pensare che in tutto questo tempo di silenzio Todd Field abbia solo studiato musicologia e scritto quest’opera meravigliosa che è appunto Tár, la ripresa quasi in tempo reale dell’ultimo mese di gloria di Lydia Tár, la più importante direttrice d’orchestra vivente, alle prese con la registrazione della “Quinta sinfonia” di Gustav Mahler (Cate Blanchett, per la cui interpretazione non ci sono aggettivi utili nel vocabolario).

Il film inizia con un’intervista, lunghissima, di Adam Gopnik del New Yorker a Tár, allieva di Leonard Bernstein, lesbica, che si rifiuta di ammettere che nel mondo della musica classica esista un gender bias. La narrazione prosegue per ampie scene o quadri, intervallati da frammenti minimi che danno l’effetto di realtà e l’impressione di una routine, del semplice tempo che passa: un tragitto in auto, la corsa al parco, l’insonnia notturna dovuta a un’ipersensibilità ai rumori, uno scambio con l’assistente (nell’ultima ora del film il ritmo si fa più serrato, le scene si asciugano e si susseguono più dinamicamente). Questi quadri sono sempre un po’ troppo lunghi, e molto spesso non aggiungono niente di saliente alla trama, sebbene siano tutti in qualche modo sintomatici. Da qui il sapore saggistico del film, uno dei segreti della sua bellezza: siamo avvolti da uno strano sopore elettrizzante, proprio di un certo tipo di opere d’arte (saper rendere la noia interessante, ecco forse il compito principale di tutti i registi, scrittori, compositori ecc., insomma di tutti quegli artisti che hanno a che fare con il tempo – e Lydia Tár è questo: semplicemente una persona che percepisce il tempo in maniera più acuta, complessa e stratificata degli altri esseri umani). In parole povere: un film fatto di dialoghi, che deve tutto a una scrittura e una recitazione non ordinarie (credo in tutto il film non ci sia una scena senza Cate Blanchett, i suoi gesti, le sue espressioni, il suo corpo e la sua voce sono come gli astri che muovono le maree). Poca trama, niente traumi infantili, nessuna storia di riscatto, nessun ricatto empatico: solo un pezzo di nuda vita davanti ai nostri occhi. Per quasi tre ore guardiamo Cate Blanchett vestita da direttore d’orchestra fare cose (tipo: accompagnare a scuola Petra, la figlia sua e della compagna Sharon, primo violino della Berliner Philharmoniker – orchestra che dirige la stessa Tár; fare le prove; parlare con vecchi musicologi tedeschi; dirigere complessi giochi di potere; fare pugilato; scrivere; suonare; viaggiare in aereo ecc.) ed è bellissimo.

Perché allora il film ha generato così tante polemiche? Perché Tár, pur essendo una donna lesbica, si comporta come un qualsiasi uomo di potere, mutuandone gli atteggiamenti e reiterandone la violenza strutturale. La pericolosità di questa operazione è rintracciabile già in alcune recensioni in rete, che lodano il film per un supposto «rovesciamento dei luoghi comuni sulle donne»: non più solo subalterne e vittime di violenze e continue microaggressioni, ma anche reali detentrici del potere, capaci – nel suo esercizio – di abusare e discriminare il prossimo. Seguendo questo ragionamento la disparità di genere sarebbe solo una posa del politicamente corretto. Decenni di lotte femministe e Lgbtq+ erose da una sola pellicola. Ma si dà il caso che il film non dica affatto questo. Certo, la falsa coscienza di Lydia Tár propende per un simile stato di cose (ci ritorneremo). Un mio parere non richiesto: il vero carattere sovversivo e non reazionario di Tár è di mettere al centro della rappresentazione un personaggio enorme, complesso, sfaccettato, crudele, affascinante, schifoso, con cui è difficile identificarsi ma al contempo canonico come Faust o Amleto o il Satana di Milton, e che questo personaggio sia una donna. Alle donne solitamente (almeno al cinema) non è concesso far schifo come un uomo, non è concesso fallire, fare sesso occasionale e al contempo avere prestigio, drogarsi ma non essere drogate, almeno nel cinema e nel teatro mainstream, almeno prima di Il mio anno di riposo e oblio (che è un romanzo) e Fleabag e La persona peggiore del mondo (non a caso titoli di grande successo, che hanno creato un genere). Semplifico l’iperbole: rispetto ai ruoli maschili, quanti personaggi femminili ben scritti ci sono al cinema? Ecco quindi la grande rottura di Tàr, un Faust, un personaggio di Bernhard, ma donna. Ovviamente quello che dico va preso con le pinze, e va ricordato che io scrivo dalla mia specola di maschio bianco etero borghese sovraistruito (in una parola: il male). Non a caso è proprio ciò che io trovo sovversivo che tutte le persone gay con cui parlo del film considerano debole: da una rappresentazione stereotipata della donna omosessuale come strega o freak all’esatto opposto – ossia una donna che ha totalmente introiettato e fatto suoi i codici e la violenza del patriarcato. E se quindi, quello che a me sembra un pregio, è solo un tentativo di inglobare il femminile all’interno di una logica formale maschile? Ma che significa?

(Intermezzo. M. F., dottore in psichiatria, anziano, lacaniano di ferro, seduta del 10/02/23, h: 15:57:  «ecco… lui [il film] è come se dicesse… non ti vedo più [la donna] come l’oggetto del desiderio… come una madre… perché rifiuti il fallo… allora io pur di disconoscere la tua diversità… beh… ti associo al mondo dei padri, e, come tutti i padri, sei deludente… ti macchi delle nostre stesse colpe…»).

La mia lettura prende una strada leggermente diversa (non obbligatoriamente più corretta, semplicemente più attinente alla mia sensibilità). Nel senso che trovo interessante aggiungere al discorso di genere anche un discorso di classe: i due piani sono sempre intersecati. C’è una battuta a inizio film che ha la forza riproduttiva di una meme: «Il narcisismo delle piccole differenze conduce al più noioso dei conformismi». Siamo tentati di dire: «Vero». Del resto è una frase ben congegnata e si rivolge a uno studente presuntuoso della Juillard in fissa con la musica atonale che si rifiuta di studiare Bach («I’m not into Bach») perché, in quanto persona Bipoc e pangender non sopporta la sua misoginia (di Bach). (Tár: «L’architetto della tua anima è un social media. Sei un robot»; ancora: «Per suonare devi sublimare la tua identità e il tuo ego». «Essere un robot» è la frase che Tár usa più spesso per conduttori e musicisti che non apprezza, ma è proprio quello che è accusata di essere. La sua assistente scherza su Whatsapp «Ha una coscienza?»). Il punto è che Tár la può pensare in questo modo perché è ricca, perché è all’apice della scala sociale, perché il potere accumulato le permette di essere e di comportarsi come vuole. Gira in macchine costose, viaggia con jet privati, va in alberghi di lusso, ha una casa che sembra un’istallazione di Anselm Kiefer dentro un negozio di Gucci, una seconda casa deliziosa, da ordinario di filosofia teoretica, che usa come studio. Librerie con un numero di volumi a cinque cifre. Opere d’arte simil Gerhard Richter. Foto incorniciate di corpi nudi in bianco e nero ben smorzato. In questo senso il simbolismo del film è abbastanza chiaro. Minuto 1:57:00. La caduta di Tar inizia con una caduta vera, quando la direttrice deve fare i conti con la differenza di classe della sua crush Olga (giovane violoncellista russa appena arrivata nell’orchestra). Lydia accompagna Olga a casa con la sua Porsche dopo le prove. Sono in un quartiere malfamato. La casa di Olga è un ex edificio manifatturiero convertito a squat. Lydia deve entrarci perché Olga ha dimenticato nella sua macchina un orsacchiotto, che vuole restituirle. C’è un androne buio, poi un ampio cortile sporco, malmesso, con dei materassi appoggiati ai muri, delle scritte. Nessuna traccia di Olga ma una musica leggera. Lydia segue la musica e scende una scalinata che da’ su un corridoio buio pieno di calcinacci. Si aprono delle stanze vuote, collassate. Si sente rumore di acqua che scroscia. Siamo in un sommergibile, ma sottoterra. Tutto è permeabile. Sembra un sogno o un film horror o un documentario sulla guerra dei Balcani. Lydia non sente più la musica, ma dei passi sempre più forti. Le finestre rotte, le stanze separate da cancelli di ferro. Davanti ai suoi occhi appare un cane che ringhia. La donna si gira e corre all’indietro, ma salendo le scale cade e si sfracella il volto. Lo scenario è freudiano, archetipico, dantesco. La catabasi reale è solo l’innesco di una catabasi generale, diffusa, che in breve tempo vede Lydia privata di tutte le sue cariche e costretta a rifugiarsi in un conservatorio del sud-est asiatico. Cos’è successo in quel sotterraneo? Sono tentato di dire: Lydia è entrata in contatto con il suo rimosso e come conseguenza, il suo mondo è collassato.

Rimane la questione della negatività di Tár. E il problema principale è il solipsismo, usare le altre persone come strumenti e poi disfarsene. Non rispettare le regole grazie alla propria posizione e al proprio carisma. Dare sfogo alle nevrosi senza badare alle conseguenze che hanno sugli altri. Vedere le relazioni come gabbie governate dalla crudeltà che vanno forzate e continuamente tradite. In una parola: sentirsi più importante dei propri simili, poiché si è dotati di un dono messianico (per capire la “Quinta sinfonia”, ci dice Tár, bisogna capire il matrimonio tra Mahler e la nuova moglie Alma. Un matrimonio basato sul fatto che Alma rinunciasse alla sua carriera di compositrice, mettendosi a tempo pieno al servizio del marito: «di stronzi in casa ne basta uno»). Il concetto di genio trascende l’appartenenza al genere («maestro» non «maestra», insiste a farsi chiamare Lydia, la quale si presenta a una bambina che bullizza la figlia letteralmente come «il padre di Petra»), il che significa, ovviamente, assumere il punto di vista dell’élite egemone. Ma è davvero giudicabile male questo comportamento egoistico quando è in qualche modo necessario, propedeutico, al lavoro del più grande direttore d’orchestra al mondo, quando permette di raggiungere il gradino più alto dell’arte e, quindi, delle possibilità umane? Se sostituiamo ad ‘arte’ la parola ‘conoscenza’ siamo nel bel mezzo del Faust (ancora Faust, il pietoso sacrificio di Margherita). Il regista dà una sua lettura e condanna la hybris di Lydia Tár. In questo senso il film è tutt’altro che un attacco al politicamente corretto o un’apologia anti-femminista, come è stato detto. Tár risponde a una teodicea rigida: chi dimentica la propria appartenenza di genere o non riconosce il proprio privilegio di classe è inesorabilmente punito.

Concludo quindi tornando al discorso iniziale. Si può parlare di rappresentazione negativa di un orientamento (o della donna in generale) quando si ha a che fare con un personaggio scritto così bene? E una simile rappresentazione quanto offusca la violenza sistemica di genere o la marginalizzazzone/stereotipizzazione delle persone omosessuali?

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