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Polanski e la nostra ambivalenza

La vittoria ai César ha scatenato un altro putiferio.

02 Marzo 2020

Conviene dirlo subito, che l’ultimo film di Roman Polanski, J’accuse, è un’opera perfetta. Perfetta quanto basta per aver calmato gli animi di chi si è lamentato della scelta, al tempo dell’uscita europea, di tradurre anche il titolo in un troppo generico L’ufficiale e la spia (An officer and a spy), recidendo il primo legame con la lettera in difesa di Dreyfus di Emile Zola pubblicata sull’Aurore nel 1898. Vai a capire. Ma quando pensavamo che la querelle si fosse momentaneamente placata, è accaduto ciò che in molti temevano di più. Poco dopo la mezzanotte di venerdì 27 febbraio, nella sala Pleyel a Parigi durante la serata dei César, gli Oscar francesi, nel momento in cui il premio per la miglior regia è andato proprio a Roman Polanski.

Proprio lui. Il grande regista di 86 anni condannato negli Stati Uniti nel 1977 per violenze sessuali su una tredicenne, e dal novembre scorso accusato di stupro da parte di una nuova (la sesta) donna, Valentine Monnier, fotografa ed ex modella di 62 anni che ha rivelato di essere stata picchiata e violentata sempre nel ’77 nello chalet di Gstaad del cineasta. Ma il colpo di scena era nell’aria, e Polanski, nonostante avesse scelto di non partecipare alla premiazione in seguito alle polemiche che erano arrivate insieme alla comunicazione delle 12 nomination per J’accuse, è stato uno spettro nel corso dell’intera serata, trascorsa fra i silenzi e le battute della presentatrice Florence Foresti: «Vorrei innanzitutto accogliere calorosamente i predatori in sala».

Succede, perché è stato candidato e quindi vince per la regia. Mentre fuori dalla sala un centinaio di donne e uomini si sono radunati per protestare contro quello che è ormai diventato un bersaglio della contestazione femminile in Francia. Dopo le dimissioni forzate dell’intera direzione del premio César a causa della denuncia da parte di più di 400 esponenti del cinema per «gestione opaca ed elitario» e le parole del ministro della Cultura francese, Frank Riester, sull’eventualità di una vittoria dell’opera nelle categorie principali. «Sarebbe un cattivo esempio per un mondo che deve necessariamente combattere la violenza e il sessismo», e Polanski vince. Dentro, Adèle Haenel, attrice candidata per il ruolo ne Il ritratto della giovane in fiamme che aveva rivelato di essere stata molestata tra i 12 e i 15 anni dal regista Christophe Ruggia, si alza e abbandona la sala, «bravo pedofilo!». Fuori, dove la manifestazione guidata dall’associazione Osez le Feminisme diventa scontro, sui cartelli si legge «Violanski», «J’abuse», «César colpevoli». Su Twitter, sotto #Polanski gli utenti insorgono così che noi, semplici spettatori, ci sentiamo costretti a domandarci ancora se sia giusto separare l’uomo dall’artista (non ci era riuscita nemmeno Lucrecia Martel, presidente di giuria al Festival di Venezia 2019 che dopo le polemiche e il rifiuto di applaudire durante la proiezione, l’aveva premiato con il Leone d’Argento – Gran Premio della Giuria); a chiederci se la colpa sia dell’establishment culturale francese che ha difeso, protetto e lodato Roman Polanski sin dalla sua fuga in Francia, nel 1978, dagli Stati Uniti.

PARIGI, NOVEMBRE 2019: la prima protesta fuori dal cinema Champo, che ha visto impegnato l’associazione Osez contro Roman Polanski (Photo by CHRISTOPHE ARCHAMBAULT/AFP via Getty Images)

Perché il regista è dichiaratamente colpevole e il suo film oggettivamente bellissimo. Con un ritmo iniziale da spy story e immagini che richiamano le composizioni e i colori di Manet e Toulouse Lautrec, J’accuse racconta la vicenda di uno dei più noti scandali della storia: il caso dell’ufficiale dell’esercito francese, di origine ebraica, degradato, arrestato ingiustamente per alto tradimento nel 1895 e confinato sull’Isola del Diavolo, e infine riabilitato dopo più di un decennio grazie all’intervento di Zola e di un ufficiale dei servizi segreti pentito. Nonostante la poetica della “vittima incastrata in un inganno più grosso di lei” sia una caratteristica costante nei film del regista (da Chinatown a Rosemary’s baby e all’Inquilino del terzo piano), pensare che esista un corto circuito tra il desiderio di Polanski di realizzare un film su Dreyfus e la vita del cineasta è scontato. Soprattutto ricordando che, intervistato dallo scrittore francese Pascal Bruckner, Polanski aveva affermato di avere «familiarità con molti dei meccanismi dell’apparato di persecuzione mostrati nel film, e questo mi ha chiaramente ispirato», nonché il piccolo cameo che si concede rappresentandosi fisicamente in una scena. Che le linee presenti nel sottotesto di J’accuse sono tantissime, personali e non. Sin dalla decisione di ispirarsi al romanzo di Robert Harris, da cui è preso il titolo per il mercato italiano e anglosassone, scegliendo la prospettiva del colonnello Picquart, l’ufficiale, per ricostruire i fatti, luoghi e volti. Così che il film non appaia tanto la storia di un martirio, quanto un’opera dedicata alla verità e alla sua ricerca sconfinata.

Ma il regista è colpevole, il film bellissimo e il momento delicato. Per quanto Polanski, nel documentario Polanski: A Film Memoir, possa essersi scusato pubblicamente, definendo la prima donna che lo aveva accusato «una doppia vittima: mia e della stampa», questi sono i tempi del #MeToo. I tempi in cui oltreoceano Harvey Weinstein viene giudicato responsabile di due capi d’imputazione. Ogni volta che qualcuno prova a difendere l’opera di un artista noto per aver tenuto un comportamento deplorevole, sembra sempre troppo facile sprofondare in un fetido “ma ha fatto anche cose buone”.

Mentre la critica ha incensato immediatamente il film come un capolavoro quale è («Più volte lo guardi, più ti accorgi della sua bellezza», aveva scritto Xan Brooks sul Guardian), sull’Atlantic Rachel Donadio ha provato a riflettere su questo genere di sentimento ambivalente. «Mi sono approcciata al film con ritrosia, perché dalle interviste di Polanski emergeva un tremendo parallelismo. Come se ci fosse un’equivalenza morale tra un ufficiale accusato ingiustamente e un regista che ha ammesso di aver aggredito sessualmente una tredicenne. Ma sono andata in crisi. Perché più lo guardavo, più mi rendevo conto di quanto il film fosse cinematograficamente e storicamente perfetto». Una lezione di storia fatta di ingiustizie e proteste, fuori e dentro la pellicola, fuori e dentro la sala Pleyel, necessaria per una Francia e un mondo che combatte ancora per arginare i pregiudizi nei confronti delle minoranze.

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