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Il grande freddo non se ne andrà mai

Quarant'anni fa usciva negli Stati Uniti un film simbolo per i Baby Boomer anche italiani, un'opera che avrebbe influenzato le aspettative sull'età adulta dei giovani degli anni '80 e non solo.

di Federico Platania

Sarebbe diventato, se non il film generazionale per antonomasia, sicuramente uno dei titoli più rappresentativi del genere. Quando Il grande freddo di Lawrence Kasdan uscì nelle sale americane il 28 settembre di quarant’anni fa, i critici statunitensi ne sottolinearono soprattutto i meriti artistici. Il Time lo avrebbe definito «un film di feroce intelligenza», il New York Times ne avrebbe parlato come di «una commedia seria e ben costruita». La storia è quella di un gruppo di uomini e donne con forti legami di amicizia e ideali condivisi ai tempi dell’università che, dopo essersi persi di vista, si ritrovano in occasione del funerale di un loro amico. L’imprevisto raduno diventa occasione per fare il bilancio della vita dei singoli personaggi e, inevitabilmente, di un’intera generazione.

Al suo arrivo in Italia furono soprattutto gli aspetti ideologici a venire messi in primo piano, a partire da un servizio della Rai che etichettò senza appello la pellicola: «un film reaganiano». I titoli delle recensioni apparse sui quotidiani italiani sono rappresentativi del modo in cui venne recepito il film qui da noi: «I sessantottini invecchiano» (La Stampa), «Il gelo dopo il Sessantotto» (L’Unità). Kasdan, insomma, venne identificato come il regista di un film “politico” per una storia che – a ben vedere – con la politica ha poco a che fare.

Non è un caso se nella poderosa storia di Hollywood firmata da David Thomson (La formula perfetta, pubblicata in Italia da Adelphi per la traduzione di Gilberto Tofano), il nome di Lawrence Kasdan non compaia neanche una volta. Forse Thomson, che John Banville ha definito «il più grande critico cinematografico vivente», non è riuscito a collocare Kasdan in un punto preciso della sua ricerca storica. Del resto dove incasellare qualcuno che è al tempo stesso uno degli sceneggiatori della saga di Guerre Stellari e il regista di film d’autore come Turista per caso, passando per il western di Wyatt Earp e l’horror dell’Acchiappasogni?

All’inizio degli anni Ottanta, Kasdan è un giovane e promettente sceneggiatore corteggiato dai nomi emergenti della nuova Hollywood. Viene scelto da Spielberg per scrivere I predatori dell’arca perduta. Lucas lo vuole al suo fianco per le sceneggiature dell’Impero colpisce ancora e del Ritorno dello Jedi. Nel frattempo si è messo per la prima volta dietro la macchina da presa per Brivido caldo, un thriller che segnerà l’inizio del sodalizio artistico tra Kasdan e William Hurt, qui nel ruolo del protagonista.

Nella seconda prova registica, deciso ad affrancarsi dalle dinamiche di coppia già esplorate nel film d’esordio, Kasdan si cimenta con un film corale, pur consapevole che questo complicherà la ricerca di un produttore. Si mette al lavoro sullo script insieme a una sceneggiatrice esordiente, Barbara Benedek, e dopo alcuni tentativi a vuoto riesce a farsi produrre il film dalla Carson Entertainment. Il film arriva nelle sale nel 1983, distribuito dalla Columbia.

Il grande freddo si apre con la vestizione del cadavere Alex, il membro del gruppo che con la sua morte fa da magnete e attrae tutti gli altri personaggi. Alex si è suicidato senza lasciare un biglietto di addio. Si è tagliato le vene mentre si trovava a casa di Harold e Sarah (Kevin Kline e Glenn Close). Conosciamo così tutta la ex comitiva studentesca: Harold e Sarah hanno una catena di negozi di calzature, Meg (Mary Key Place) è un avvocato immobiliarista, Sam (Tom Berenger) ha conquistato la notorietà grazie al ruolo di protagonista in una serie di telefilm, Nick (William Hurt) è un reduce dal Vietnam con un passato da conduttore radiofonico, Karen (JoBeth Williams) è una casalinga sposata con un pubblicitario e Michael (Jeff Goldblum) è un giornalista.

Dunque, il classico film in cui un gruppo di persone riflette sul passato perduto e fa i conti con la propria disillusione. E, sia chiaro, Il grande freddo è anche questo. Ma in molte scene il dramma prende i toni di una commedia grintosa. Non mancano, ad esempio, battute macabre sull’amico suicida. Il defunto Alex diventa il capro espiatorio dell’intero gruppo. Quasi un Cristo generazionale che deve morire per permettere agli altri di continuare ognuno con la propria vita.

Per elaborare il lutto, il gruppo decide di passare qualche giorno insieme a casa di Harold e Sarah, una meravigliosa villa ottocentesca a Beaufort, nella Carolina del Sud. Curioso che Kasdan abbia deciso di girare un film corale per allontanarsi dalle dinamiche claustrofobiche del suo lavoro precedente e abbia poi “costretto” i suoi personaggi dentro un’abitazione. Ma oltre alla freschezza della scrittura, a far entrare aria nelle scene è soprattutto la musica, un’infilata micidiale di classici soul, R&B e rock-blues.

La scena del funerale di Alex diventa, grazie all’uso consapevole della colonna sonora, una delle scene da antologia del cinema americano degli anni Ottanta. Al termine della cerimonia, Karen viene invitata a suonare all’organo una delle canzoni preferite di Alex. Parte dunque l’attacco di “You Can’t Always Get What You Want” dei Rolling Stones. Mentre la folla si sposta al di fuori della chiesa (un edificio in stile gotico rurale che sembra uscito da un racconto di Flannery O’Connor) le note d’organo lasciano spazio al pezzo degli Stones vero e proprio e i fari delle auto del corteo funebre si accendono a tempo seguendo la voce di Jagger e la batteria di Charlie Watts.

Gli adolescenti degli anni ‘80 che guardavano Il grande freddo si chiedevano se, al pari dei personaggi sullo schermo, li attendeva quello stesso futuro di crisi coniugali, esistenziali e sociali. Ma – e in modo molto più prepotente di questo – erano soprattutto incantati dal fascino dei personaggi. Perfino l’impotenza di Nick aveva qualcosa di invidiabile. E di sicuro era invidiabile la sicurezza economica di Sarah e Harold e il “troppo” successo di Sam. «Se questi sono i problemi dell’età adulta – rimuginavano i giovani spettatori nelle proprie teste – beh… dove si firma?».

La vera critica che si può muovere al grande freddo non ha a che vedere con gli aspetti propriamente cinematografici. Attrici e attori sono perfetti per le loro parti, la sceneggiatura bilancia egregiamente toni drammatici e comici, la morbidezza della fotografia conferisce alla pellicola un’aura da raffinato film indipendente, della musica si è detto. Dove il film è debole, forse, è proprio nella poca determinazione con cui mette sotto osservazione il momento storico che si propone di raccontare: il cuore dell’era reaganiana, il riflusso degli anni Ottanta e la conseguente deriva edonistica. Kasdan e Benedek sembrano quasi prendersi gioco dello spettatore mettendo in scena un personaggio come Richard (il marito di Karen, stereotipo del manager razionale e perbenista) togliendolo di mezzo a metà film. Gli altri personaggi restano così senza un bersaglio che rappresenti l’America che non vogliono essere (o meglio: che non volevano essere e che invece – più o meno – sono diventati).

Il grande freddo ci va con la mano leggera quanto a critica sociale. Anche se a ben vedere è difficile stabilire se, dal punto di vista artistico, questo sia più un difetto che un pregio (la recensione sul Chicago Sun-Times, all’epoca dell’uscita del film, si poneva un quesito simile). Forse la riuscita del Grande freddo sta proprio nell’aver presentato in modo positivo, se non addirittura vincente, quella che in altre mani sarebbe diventata (solo) la deprimente storia di una generazione che ha fallito. Il mood del grande freddo è molto distante dal tono da “dove abbiamo sbagliato” di quella scena di un immaginario film italiano che Nanni Moretti infila in Caro diario. Ed è molto distante anche, per fare esempi di film girati realmente, da St. Elmo’s Fire di Joel Schumacher o dai film generazionali di Muccino o ancora dal classico Compagni di scuola di Verdone. Quanta amarezza viene iniettata in quei finali e con quanto sadismo gli autori fanno passare chiaro il messaggio che non si può essere felici se non quando si è giovani.

Nel grande freddo, invece, l’ultima battuta di Michael, «Non ce ne andiamo, non ce ne andremo mai» (che suona quasi come il finale dell’Innominabile beckettiano «Non posso continuare. Continuerò.») chiude il film con una determinazione inaspettata. Se nei film generazionali il passaggio all’età adulta coincide invariabilmente con la fine del sogno, nel Grande freddo Kasdan sembra proprio dirci che il sogno può continuare.