Cultura | Dal numero

Come sopravvivere a un vibeshift

Un cambiamento dello spirito del tempo, quello che succede quando le mode e le tendenze culturali che hanno dominato fino a quel momento sembrano all’improvviso superate: è quello che stiamo vivendo adesso anche se ancora non lo sapevamo.

di Allison P. Davis

Questo articolo, originariamente pubblicato dal New York Magazine a febbraio e tradotto per noi da Elisabetta Venturini, è tratto dallo speciale del numero 50 di Rivista Studio dedicato alle cose che desideriamo in un’epoca in cui niente sembra più come prima.

Una mattina di giugno, mentre sbuffavo sulla mia cyclette – un gioiellino, una Peloton – fingendo di avere abbastanza tempo per preparare il fisico alla Hot Vax Summer che in realtà non c’è mai stata, mi è arrivato un messaggio dalla mia amica Ellen: «Ok, dimmi se questo è uno stupido. Ma ’sta cosa mi ha messo ansia stamattina». Mi ha girato un link a un qualcosa intitolato Vibe Shift, una voce di un canale Substack chiamato “8Ball”, che si è rivelato essere la newsletter settimanale di uno studio di consulenza di trend forecasting fondato da Sean Monahan. In passato, Monahan aveva contribuito a creare l’ormai tramontato collettivo artistico K-HOLE, noto per aver battezzato il fenomeno del normcore degli anni Dieci e aver spiegato in breve perché di punto in bianco tutti indossavano New Balance e dad jeans. In altre parole, Monahan è uno che ha fatto carriera traducendo le tendenze culturali per un pubblico ampio.

“Vibe shift” è il termine accattivante ma un tantino troppo ricercato con cui Monahan definisce un’idea relativamente semplice: nella cultura a volte le cose cambiano, e la lunghezza d’onda sociale che un tempo predominava comincia a essere superata. Monahan, che ha 35 anni, scompone i tre cambi di atmosfera culturale a cui ha assistito ed è sopravvissuto: l’era degli hipster e della musica indie (2003-2009 circa), culminata con gli Arcade Fire e i Bloc Party, i Cheap Monday a vita alta, Williamsburg, i bar dei cocktail personalizzati; l’era post-internet e del revival della techno (2010-2016 circa) ovvero di Blood Orange, del normcore, del vestirsi alla Matrix, del Kinfolk (il locale, non il magazine); e l’era degli hypebeast/Woke (2016-2020 circa), vale a dire di Drake che più Drake non si può, dell’app Nike SNKRS, della rivendita di sneaker, del farisaismo, di Donald Trump e del proteste sì, brunch no.

Puoi discutere l’accuratezza della cronologia di Monahan o passare ore dopo cena a contestare i punti di contatto di ciascuna era – è piuttosto divertente dibattere su quale tendenza spopolava in un certo periodo, o quale fosse un’esclusiva dei bianchi – ma la cosa che ha spaventato Ellen è stata la previsione di Monahan sul fatto che ci troviamo sull’orlo di un nuovo cambio nello spirito del tempo. E inquietante lo è, perché quando consideri seriamente la cosa, percepisci che le persone si concentrano in massa su qualcosa di nuovo e ti rendi conto che ha ragione; qualcosa è cambiato.

Non sarebbe stato nulla di così sconvolgente (è il modo in cui evolvono i tempi), se non fosse per questo paragrafo che spiega come si manifesta questa concentrazione di massa: Un giorno tutti indossavano scarponi Red Wing e facevano feste nei magazzini di Williamsburg decorati con sfavillanti ghirlande di luci. CAMBIO! Tutti hanno cominciato a mettere le Nike Free e a sudare in discoteca. Ora, qualcuno non ce l’ha fatta a tenere il passo… “Perché avete tutti le stesse scarpe!”, direbbero in tono supplichevole. “Non ve ne frega niente dell’autenticità? Cos’è tutto questo interesse improvviso per i marchi!” Questo per dire che non tutti sopravvivono a un “vibe shift”. Quelli ancora aggrappati all’autenticità e alle ghirlande di luci si sono cristallizzati nel loro mondo hipster, mentre la cultura è andata avanti. «Hanno piantato le tende a Greenpoint e si sono sposati» o si sono trasferiti a Hudson con le loro barbe incerate e le braccia ricoperte di tatuaggi nautici. E stando a questa legge, chi è sopravvissuto a questo cambiamento solo per rimanere bloccato nell’era, per esempio, degli hypebeast/Woke, ebbene, si è già trasferito a Los Angeles in case abbastanza spaziose da poter mettere in mostra le sue collezioni di sneaker che valgono una fortuna.

Purtroppo, ho accolto quest’analisi sociale con l’agitazione a mille. È agghiacciante renderti conto che potresti essere uno di quelli bloccati o, se non lo sei, potresti esserlo presto. Come Ellen, da allora non faccio altro che pensare alle mie probabilità di sopravvivenza. Quest’idea dell’atmosfera che sta cambiando è cascata a fagiolo proprio mentre cercavo di capire cosa avrebbe dovuto essere la Hot Girl Summer – o Hot Vax Summer, o “whoring ’20s”, o qualunque sia l’etichetta che scegli di affibbiare al trionfale ritorno tanto atteso – e chi avrei dovuto essere io durante. Ero nel pieno del tentativo di imparare daccapo che vestiti indossavo, come cercavo il sesso, di quali droghe mi facevo e con chi, che musica ballavo e dove. Potevo accettare che alcuni dei miei vecchi bar avessero chiuso i battenti (pace all’anima vostra, Frank’s e Kinkfolk) e che tra le mie conoscenze fossero in parecchi ad aver avuto figli (pace all’anima vostra, voi che avete fatto figli), ma avevo anche la sensazione che, per certi versi, il tempo si fosse fermato.

Era rassicurante pensare che la pandemia avesse messo in pausa la vita, o perlomeno avesse impostato il rallentatore. Che mentre alcuni di noi se ne stavano chiusi in casa, o erano nel mondo ma socialmente distanziati, o semplicemente se ne stavano per conto proprio come meglio potevano, la cultura non stesse davvero progredendo. In terapia avevo parlato di come, per la prima volta dopo anni, non avessi provato nessuna Fomo acuta. Era bello che tutti fossimo in una specie di stallo, a guardare la stessa robaccia su Netflix. Certo, alcuni stavano uscendo “di nascosto”, ma non sapevamo davvero cosa stessero combinando, e non avevamo motivo di credere che stessero promuovendo chissà che tipo di abitudine.

A quanto pare, due anni possono essere stati risucchiati in un buco nero, ma ho avuto la presunzione di credere che niente avrebbe riempito quel vuoto. «Quelli erano ancora anni reali. Le opinioni della gente cambiavano, le cose succedevano. Solo che, insomma, durante la maggior parte della pandemia la cultura e la cultura pop non sfornavano proprio dei tormentoni», dice Monahan al telefono, mentre tentiamo di decifrare con precisione il “vibe shift”. «Quella della gente è una vera e propria paranoia. Tutti uscivano dal letargo chiedendosi “Cosa si mette la gente? Cosa legge? Cosa fa?” Ed era diverso rispetto a quando eravamo tutti entrati nella pandemia. Ha destabilizzato un sacco di gente», dice Monahan, con commiserazione, credo.

Era bello che tutti fossimo in una specie di stallo, a guardare la stessa robaccia su Netflix. Certo, alcuni stavano uscendo “di nascosto”, ma non sapevamo davvero cosa stavano combinando

Come me, Monahan è un Geriatric Millennial, ma mentre resta da vedere se io starò al passo col cambiamento, lui è già andato avanti. È la sua particolare abilità, dopotutto. La sua capacità di prevedere le tendenze si è concretizzata mentre si stava laureando in pittura alla Rhode Island School of Design. Pur non essendo riuscito a trovare un lavoro dopo la laurea nel 2009, i suoi studi gli hanno permesso di riconoscere la «tradizione occidentale della creazione di immagini», dice. «Ci sono dei motivi ricorrenti che emergono. Non appena sfiori il modernismo, la cultura comincia a entrare in queste specie di cicli parricidi in cui ogni generazione emergente cerca di confutare il passato». Ha incanalato il concetto nel K-HOLE, il collettivo che aveva avviato con gli amici nel 2011. Emily Segal, un’altra cofondatrice, ha descritto il K-HOLE al T Magazine come «una versione estrema del gusto aziendale di attingere ai giovani, alle droghe e alle controculture per l’ispirazione sugli stili di vita». In altre parole, il K-HOLE ha cercato di trasformare le previsioni delle tendenze in un progetto artistico. Nel 2013, ha riconosciuto un modo specifico in cui le persone «cercavano di orientarsi nella moda e nello stile personale, in una sorta di ecosistema di social media emergente che aveva scardinato il vecchio copione sul modo di posizionarsi come interessanti», dice Monahan. In breve, il normcore era un rimprovero all’essere degli ipersensibili ad hoc e al pubblicizzarlo su Instagram.

È anche un meme a cui Monahan non può sfuggire, dice con un sospiro. Il normcore è diventato virale ma non ha fruttato soldi al gruppo: «Non è mai stata una cosa tipo “Ecco i nostri piani di fuga per diventare miliardari, trasformiamo i nostri pdf in un brand globale di servizi creativi o roba simile”», spiega. Il K-HOLE si è sciolto nel 2016. Monahan dà la colpa ai tempi, a quella che chiama «l’impraticabilità» della cultura degli anni Dieci. «Avevamo una portata molto ampia, ma zero monetizzazione». Ma i brand avranno sempre bisogno di qualcuno che spieghi le microculture di TikTok ai vecchi sfigati. Perciò, anche senza il collettivo, Monahan ha trovato il successo come consulente per brand come Nike, che lo pagano per raccontare una buona storia sul perché una persona compra X anziché Y. Qual è la nuova atmosfera culturale? Monahan aveva pensato di lanciare su Substack un seguito di Vibe Shift, in cui avrebbe analizzato nel dettaglio cosa si stava diffondendo (informazioni che reputava così preziose da richiedere l’acquisto di un abbonamento annuale di 600 dollari per accedervi. Al momento, l’abbonamento per un anno è più in linea con gli standard di mercato di 50 dollari). Sei mesi dopo, non è ancora riuscito a venirne a capo. (Delta e Omicron hanno rallentato un po’ il cambiamento, un colpo di fortuna per quelli di noi che vogliono una seconda possibilità per evitare di essere lasciati indietro).

Tuttavia, Monahan ha alcune teorie: «Ho la sensazione che la traiettoria degli anni Dieci sia stata stravolta in molti modi. Il discorso sulla guerra culturale non sembra più così interessante agli occhi della gente. I social media non sono più un luogo dove poter essere chissà quanto creativi; tutte le prospettive sono state esplorate. I più giovani sono meno interessati a cose come, cito testualmente, cancellare la cultura. Quelli erano, diciamo, i grandi pilastri che usavamo per orientarci nella cultura pop degli anni Dieci. E c’era l’ascesa di tutte quelle piattaforme tecnologiche sauronesche di portata mondiale, letteralmente presenti in ogni continente. Le persone vogliono rendere le cose di nuovo private».

Con la pandemia e il cambiamento climatico, la nostra estetica e il comportamento sono di certo plasmati da un senso di sventura

Monahan pensa che il nuovo salto culturale potrebbe consistere nel ritorno delle porcherie indie dei primi anni Zero. «American Apparel, le foto coi flash ai party, capelli in disordine e trucco sfatto», improvvisa, oltre a un ritorno a una cultura più frammentata. «La gente prende un sacco di direzioni diverse perché non sembra esserci una visione coerente e unica della musica o della moda». Vede le newsletter di Substack e i podcast come i nuovi blog, e un allontanamento dall’interesse della Silicon Valley nell’ottimizzare i flussi di lavoro, «il che è così anti-decadenza». Cosa ancor più promettente, prevede un ritorno dell’ironia. Suggerisco che c’entri qualcosa la pulsione di morte. Con la pandemia e il cambiamento climatico, la nostra estetica e il comportamento sono di certo plasmati da un senso di sventura. C’è del nichilismo nel modo in cui la gente si veste e fa festa; più ci avviciniamo alla morte, più i nostri tacchi si alzano. Ecco perché le persone hanno ricominciato a fumare, così dice il New York Times. «Oh, sicuro», concorda Monahan, ma non del tutto. «Credo che l’interesse per l’opulenza e quello per la trasgressione in un certo senso non siano altro che frustrazioni represse date dalla pandemia, dove il pensiero della gente è “voglio divertirmi”. In più, gli anni 2010 sono stati un decennio talmente politicizzato da farmi pensare che il desiderio della gente di essere meno vincolata dalle considerazioni politiche abbia perfettamente senso». Si vede che sta formulando una teoria sul momento quando porta il fatto che adesso al Bemelmans Bar c’è un buttafuori come prova della rinnovata adesione alla vecchia opulenza.

Eppure, come tutti quelli che ora sono esposti a questa teoria, mi trovo di fronte a una scelta: provo ad aderire a qualsiasi tendenza arriverà, o scelgo di accettare di aver trascorso i miei ultimi due anni buoni sul divano, in “pantaloncini da casa carini” e UGG, a ingurgitare antidepressivi? Quanto sarebbe facile fossilizzarmi nelle mie clogs Rachel Comey (2013), stringendo scalogni (2018), ascoltando il Drake del 2011, essendo semplicemente felice di incanalare il mio stile personale nei casalinghi invece che nell’abbigliamento, come Monahan dice che sta facendo la mia fascia demografica? Oppure continuo a combattere, vivendo la mia vita come se fossi una comparsa in Euphoria? Monahan mi ha rassicurata dicendomi che va benissimo non sopravvivere al cambiamento. A tutti è permesso di rimanere attaccati a qualsiasi cosa ci faccia stare bene, e se questa appartiene al 2016, al 2012 o al 2010, non importa.

Monahan mi ha rassicurata dicendomi che va benissimo non sopravvivere al cambiamento. A tutti è permesso di rimanere attaccati a qualsiasi cosa ci faccia stare bene, e se questa appartiene al 2016, al 2012 o al 2010, non importa

Ho deciso di fare un sondaggio tra i miei amici su cosa stanno facendo, soprattutto quelli senza figli. Pensano che emergeranno dall’altra parte di tutto questo “come adulti” che accettano e basta di aver perso gli ultimi anni di libertà socialmente accettabile? Si lasceranno imprigionare? «Sto scrivendo di un “vibe shift”», messaggio a un amico, affrontando l’argomento. «Sono cose belle o brutte? Non ti seguo», risponde. Oltretutto in realtà non gliene importa, perché si è fidanzato ed è stato in vacanza e si definisce culturalmente ottimista. Non c’è spirito del tempo che lo farebbe cambiare. «Riguarda i bambini? Vuoi avere un bambino?» chiede un altro amico, che ha appena avuto un figlio e vuole compagnia e si rifiuta di capire che qui c’entra il clima culturale. Potrei semplicemente scegliere di dissociarmi da tutto questo, ma ecco un assaggio di quello che mi aspetta se sopravvivo: sul finire dell’estate scorsa, Monahan era a Los Angeles bazzicando «tale wine bar di tendenza di nome El Prado», dove ha osservato una ragazza di 21 anni con addosso delle Rocket Dog, cioè zeppe, e jeans bootcut True Religion a vita bassa. Ha notato che portava una borsetta a spalla in pelle nera, una canottiera e un cappellino da camionista. Era come se avesse viaggiato nel tempo, direttamente da Kitson dei primi anni Zero. L’ha guardata attaccare discorso con un tizio hipster più grande di lei. «Lui cercava di spiegarle cosa fosse un “mosh pit”, cioè lo spazio dove si poga ai concerti, e il mio amico stava quasi morendo dal ridere per questa bizzarra conversazione intergenerazionale, quando ci siamo detti “Quella ragazza sembra appena essere passata da, che so, il 2008 a questo bar e star parlando a un tizio che pare sia dal 2008 che non dà una svecchiata al suo stile”. E lui sta cercando di darle ben più che un punto di vista sui bagni di folla agli spettacoli hardcore dei primi del Duemila», dice Monahan, ridendo incredulo.