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Elogio dell’uvetta

La produzione dell'uva passa vive una delle crescite più decise di sempre: breve storia di un alimento amato e odiato.

di Teresa Bellemo

Scatole di uvetta in un negozio di alimentari in Illinois (Foto di Tim Boyle / Getty Images)

Alla fine dei lunghi ed estenuanti pranzi di Natale il tavolo sembra un campo di battaglia. E non è soltanto colpa del loro essere baricentro degli equilibri familiari, degli scambi di chiacchiere annoiate e di cavatappi a forma di delfino. È per le infinite portate e per il vino versato e per le schegge di torrone che si appiccicano a tovaglioli e maniche di maglione. Ed è perché tra i partecipanti dei pranzi di Natale c’è sempre una delegazione degli hater dell’uvetta, che non rinuncia alla fetta di panettone, ma che puntualmente la scava, la smantella, la distrugge, lasciando davanti a sé uno scenario truculento di briciole e brandelli di carta oleata. Se Nanni Moretti non si fosse unicamente concentrato sul Mont-blanc, se il pranzo di Bianca fosse avvenuto nel periodo natalizio – se non fosse così romano – forse avrebbe perso le staffe davanti al padre che scomponeva in termini minimi un panettone a caccia delle uvette. 

Dietro l’odio per l’uvetta si nasconde un rapporto conflittuale coi dolci. Un rapporto mai diventato maturo che fa dire «non mi piacciono i dolci», ma nessuno lo fa notare perché l’amore per le cose dolci è legato all’infanzia, dunque di primo acchito sembra un’opinione molto più adulta rispetto al provare orrore per le cose verdi sul piatto. Non amare le uvette è probabilmente conseguenza di una scarsa elaborazione del rapporto con la materia dolce, spesso iniziato con le merendine che si mettevano nello zaino e poi semplicemente accantonato proprio come si fa con gli zaini e le squadrette. I dolci per alcuni adulti sono quella roba lì, per questo non piacciono. Per questo le uvette sono cattive. Me lo ricordo l’infausto periodo della mia vita in cui odiavo l’uva passa.

Alla fine dei pranzi natalizi esisteva solo il pandoro. Il panettone, con tutti quei bitorzoli, era cosa da vecchi. Il pandoro somiglia di più alle merendine della scuola, si fa presto ad amarlo. Il panettone è più spigoloso, meno banale. Ha bisogno di essere maggiormente capito, proprio come l’uva passa. Una volta accettato che la pasta del panettone era più saporita (è questo il primo passo), anche io scavavo per evitare di incappare nel chicco d’uva nascosto, anche il mio posto al tavolo di Natale sembrava un terreno di battaglia. Il panettone era come tutta quella frutta secca, quei datteri, quelle noci amare, quelle mandorle che non si riuscivano mai ad aprire, quei fichi secchi sì dolci ma così sgraziati. Un sottoinsieme della gastronomia essenzialmente natalizia triste e vecchio, amplificato dal fatto che io ero una ragazzina nel pieno dell’edonismo consumista e i miei parenti mi raccontavano che tutta quella roba la trovavano entusiasti nelle calze della Befana o addirittura come regalo di Babbo Natale. «Lasciatemi alla mia Barbie Magia delle feste e al mio pandoro, sfortunati adulti dickensiani, e già che ci siete tenetevi l’uva passa», pensavo.

Foto di Tim Boyle/Getty Images

Anche il modo in cui la vendevano nei supermercati era triste. Sobri sacchettini razionalisti per 250 grammi d’uvetta di Corinto, quella meno pregiata e più frequente da trovare, adatta a preparare dolci. La “Zante currant”, come la chiamano in America, è scura, con acini piccoli e particolarmente zuccherina ma di minor qualità rispetto alla Sultanina, di colore ambrato e con acini più polposi e grandi, che spesso si trovava in quei banchetti delle fiere in mezzo ad altra frutta disidratata che io coerentemente guardavo con orrore.

Ma attorno all’uva passa si sono costruiti secoli di rapporti diplomatici tra Venezia e Regno britannico e isole come Zante e Corfù hanno per anni fatto di questo loro prodotto una delle principali fonti di sostentamento economico. Se esistono tantissimi dolci inglesi con le uvette (nonostante oggi se si pensa al plum-cake lo si pensa confezionato, allo yogurt e al massimo con delle sornione gocce di cioccolato, quello classico, inglese, è fatto con panetti di burro, uvette e canditi) è anche merito dei commercianti veneziani – uno su tutti il quasi monopolista Giacomo Ragazzoni, mercante veneziano del Cinquecento – che hanno intavolato con gli inglesi uno scambio incredibilmente intenso di questo prodotto, tanto da divenire oggetto di contrabbando e oggetto di redditizi dazi (fra il 1627 e il 1645 le entrate dell’imposta sull’uva passa oscillavano tra i 45 e gli 83 mila ducati l’anno, mentre gli altri dazi delle isole di Corfù e Zante generavano poche centinaia di ducati).

Anche sulle uvette, dopo la Battaglia di Lepanto, il declino di Venezia è stato evidente: inglesi e olandesi hanno iniziato a contrattare direttamente con i produttori delle isole scalzando gli intermediari della Serenissima e riducendone così a poco a poco l’influenza. Oggi i più grandi produttori di uva passa sono l’Australia, la Turchia e la California (che americanamente chiama la Sultanina “Golden” o “California”) e per il 2018/2019 si stima che la produzione subirà una delle più decise crescite di sempre (+8% a livello mondiale). Dopo decenni di oblio e di scollamento dal suo tradizionale immaginario sinonimo di opulenza, dolcezza e ricchezza, l’uva passa sta dunque lentamente tornando ai serenissimi fasti che merita. Se ora è confezionata in accattivanti bustine colorate di mix di frutta secca e la si trova addirittura nei distributori automatici, in muesli, barrette, yogurt, insalate, se al supermercato non sono più nello scaffale più basso del reparto preparati per pasticceria, il merito è da cercare su più fronti.

Arrivare a non odiare più l’uvetta, arrivare anzi ad amarla, è un atto di autocoscienza, di risoluzione psicanalitica del rapporto con l’infanzia. È più o meno lo stesso che sta accadendo nei carrellini con cui si va a fare la spesa in quei mercati del sabato mattina organizzati dai piccoli produttori locali. Da questi carrelli spuntano fuori ciuffi di cavolo nero, borragine, rape pagate a peso d’oro, cestini di topinambur che i miei genitori – gli stessi delle calze con i datteri – avrebbero dato ai cavalli ma invece contiene tanto potassio e poi «oh, è buonissimo davvero, ci hai mai fatto la vellutata?». Ma il ritorno alle origini e ai sapori autentici è inesorabile. E quindi viva la pagnotta natalizia (si somigliano un po’ tutte, dal Certosino bolognese al Pan pepato, dal Pan dolce genovese al Buccellato siciliano) che di solito ha un concentrato di uvette, canditi, frutta secca e spezie che negli sfavillanti anni Ottanta avrebbe fatto orrore perché brutta e cattiva, ma adesso è davvero ottima e fatta con i grani antichi. E poi i nutrienti. Oggi che non si ingerisce più nulla se non si sa cosa c’è dentro, le uvette si ricordano chi erano e che possono ritornare. E lo fanno mica in sordina, cambiando soltanto packaging, ma addirittura si meritano l’epiteto di superfood. Zuccherina, ricca di antiossidanti, ferro, vitamina B, potassio, con un forte effetto di sazietà e proprietà anti-diabetiche, antibiotiche e disinfettanti, l’uvetta pare avere davvero infiniti superpoteri. Superfood, con una lunga storia alle spalle, protagonista della tradizione pasticciera italiana, odiata e poi (abbastanza) amata, l’epopea dell’uvetta è davvero il feuilleton perfetto che racconta l’evoluzione del gusto, in altre parole, il diventare autenticamente adulti.