Cultura | Città

Rimini immaginata

La demolizione di uno storico cinema che coincide con l’inizio dell’esplorazione di una città: i quartieri popolari, le vetrate del Grand Hotel, i divi del cinema a passeggio con le casalinghe e, sempre sullo sfondo, l’Adriatico.

di Marco Missiroli

Il 15 aprile arriva in edicola e nelle librerie il sesto numero di Urbano, il magazine dedicato alla cultura dell’urbanistica nato in occasione del centenario di Borio Mangiarotti, società di sviluppo immobiliare fondata a Milano nel 1920. In questa nuova uscita protagoniste sono le coste italiane: da Nord a Sud, dall’Adriatico al Tirreno, senza dimenticare le isole. Gli interrogativi che vengono toccati sono molteplici, dal ruolo che architetti e progettisti devono avere quando chiamati a intervenire in questi territori al significato profondo che questo confine rappresenta per la nostra penisola. Pubblichiamo qui uno dei pezzi del nuovo Urbano, firmato da Marco Missiroli.

Quando nel dicembre del 2005 demolirono il cinema Apollo, io ero lì. Le ruspe lo finirono di sgretolare in tarda mattinata e ricordo di essermi fatto il segno della croce come davanti a certe chiese abbattute negli anni della guerra. Rimini è una città cresciuta nei bombardamenti e nelle ricostruzioni, ma quella volta sapevamo tutti che era finita e basta. Finito l’Apollo, finito il quartiere dell’INA Casa con la magia della cinematografia, finiti noi che abitavamo in via Magellano e che il venerdì dopo le scuole correvamo sotto le teche per l’affissione dei nuovi film in programmazione. Abitavo al civico 34 e impiegavo ottantacinque passi per arrivare all’Apollo. Certi pomeriggi entravo solo a prendere i popcorn e le rotelle di liquirizia al bar, con la zènta, la gente, che veniva da Rimini intera per la proiezione delle due e mezzo e delle quattro e mezzo e la sera del sabato, quando il nostro quartiere ai margini diventava la piazza dell’immaginazione. Indiana Jones, ET, Balla coi lupi, Moonwalker e nessuno ha mai dimenticato il gennaio del 1998, il mese in cui uscì Titanic: avevo quasi diciassette anni e stavo alla finestra del salotto per vedere via Magellano e via Mengoni e il budello delle strade con la coda delle macchine che strombazzava per avvicinarsi e prendersi il biglietto. E c’erano mia mamma, mio babbo, mia sorella e il vicinato con la famiglia dei Sabatini e dei Zamagna attaccati ai vetri perché a un certo punto le automobili in fila si aprivano e facevano scendere un passeggero che accorreva per assaltare gli ultimi posti rimasti. Si spingevano, si superavano, le donne più veloci dei maschi e i fari con gli abbaglianti per incitare alla gara. Qualcuno ci suonava al citofono di casa e chiedeva di parcheggiare negli spiazzi privati, altri la mettevano ai cancelli senza chiedere e subito a sgambare verso l’Apollo per DiCaprio e Kate Winslet.

Noi dell’INA Casa i biglietti li prendevamo il pomeriggio per la sera, ma non erano numerati e bisognava mangiar presto per presentarsi in sala almeno mezz’ora prima e stare al centro. E quei ritorni a proiezione chiusa, aspettando l’ultimo titolo di coda e poi fuori come lumache per parlare degli attori e dei registi, finendo sempre con Fellini che si diceva fosse passato proprio lì davanti con Mastroianni o Flaiano nella Mercedes discutendo di ispirazione. Qualcuno li aveva visti, qualcuno mai, qualcuno una volta soltanto. Fellini all’INA Casa, il quartiere delle case popolari e della gente lontana dal lungomare. Invece non finì tutto con l’Apollo raso al suolo. Dopo che l’ebbero estinto, le macerie ripulite, l’andirivieni di ingegneri e geometri e capi-progetto, la polvere a planare e la staccionata di legno issata, noi non smettemmo mai di guardare il cinema che non c’era più. Una voragine verticale, nell’angolo tra via Magellano e via del Volontario, che ci ammassava spalla contro spalla oltre la carreggiata. E adesso? C’sa fasèm? Cosa facciamo? E giù a stringerci, cercando compensazioni al Blockbuster sulla circonvallazione per le cassette e i dvd, e intorno questa città che aveva iniziato a cambiare. La città che cambiava: senza il nostro cinema, di colpo, alzammo la testa e lo sentimmo. E sentimmo che potevamo oltrepassare un quartiere per conoscerne altri. È strano, ma accadde una cosa: l’addio all’Apollo garantì un moto centrifugo a chi lì vicino c’era nato e se l’era sempre negato. Adesso l’esplorazione diventava possibile perché non esisteva più l’INA Casa dell’immaginazione, ma una città prontissima a togliersi dal cliché delle lunghe estati, delle tedesche e dei vitelloni. Era venuto il nuovo, insomma, e noi lo scoprimmo a furia di gambe.

Rimini è un cammino. Periferia-mare sono cinquanta minuti a piedi. Periferia-centro storico, circa mezz’ora. Dopo l’Apollo ci muovemmo a grappoli, a spizzichi, a nugolo, da soli, passavamo di fronte alla voragine del cinema scomparso e marciavamo lungo via Dario Campana, la strada di alberi che sbuca al Castel Sismondo e giù per la discesa che tocca il grande platano e finisce in Cavour. Mentre la percorrevamo facevamo attenzione alle orecchie per ascoltare i tre suoni riminesi: il fruscio del garbino nell’aria, il gorgogliare dell’acqua nella piazza, il vociare di chi sta alla giagia del non far niente. Rumori di una città volante, navigata, che gioca con il sogno. Ma quale sogno? In questa discesa che immette in piazza Cavour, camminammo e camminiamo assieme a un uomo di mezza altezza che indossa un cappotto color cammello: è Alain Delon e ha un’andatura svogliata, le mani in tasca, la sigaretta in bocca e si racconta che il regista Valerio Zurlini gli abbia fatto assorbire quella postura da passeggio per la prima volta nella discesa che stiamo finendo di percorrere, costringendolo a scendere e risalire finché non trovò un ciondolare giusto per un film che si sarebbe intitolato La prima notte di quiete. Dunque, eccoci: lasciato il quartiere dell’immaginazione, siamo entrati nei luoghi dove Delon depositò l’altro sguardo di Rimini, opposto al taglio felliniano: scendendo in piazza Cavour, inoltrandoci nel centro storico attraverso Corso d’Augusto e iniziando la falcata verso il mare e la sua Palata, la città sognante dell’Adriatico diventò un tempo sospeso per interrogare la malinconia. La nostra prima notte di quiete, dopo la baraonda onirica di un amarcord che certe volte ci aveva intrappolato nell’allegria violenta della bella stagione.

Così siamo arrivati in un fulcro dove i turisti quasi non arrivavano, richiamati da un canto del Tempio malatestiano: nei giorni primaverili la sua facciata riflette la luce del secondo pomeriggio in un alone rosato che colpì Giulietta Masina un giorno di aprile. Era tornata in riviera senza il marito e aveva camminato dal Grand Hotel a lì in solitaria, incontrandosi con un’amica di vecchia data, soffermandosi a lungo sul riverbero caldo del marmo. Come cambiano le cose in base alle inclinazioni degli occhi. Come cambia, Rimini. Giulietta si era avvicinata alla chiesa e invece di entrare aveva insistito su quel manto arrossato che forse rivelava molto di sé stessa, il saper stare al di fuori dalle scene madri per risplendere di bagliori inaspettati. Il marmo, l’arrossire, la discrezione di una postura che mostra quanto una città possa essere altro rispetto all’apparenza. Il sospiro della Masina davanti al ventricolo di un centro storico che ricominciava a sfavillare, con i mercatini i venerdì d’estate e le biciclette all’imbrunire, con la gente a passeggio tra il cardo e il decumano di una geografia che avrebbe omaggiato la sua arte nel museo Fellini e nelle doppie anime del cinema Fulgor, e via via, risalendo il corso fino all’Arco d’Augusto dove un’altra cinepresa si accese negli anni Ottanta per una pellicola che passò anche dall’Apollo e rinforzò il mito della riviera, Rimini Rimini. Guardando l’Arco, direzione periferia, oltre la pista ciclabile, dietro alla vegetazione, si intravede la famosa villetta in cui furono girate alcune scene del copione di Corbucci che inneggiava alla stagione balneare e al cliché romagnolo. Quel cliché resiste ancora, ma ora chiede permesso davanti al nuovo splendore architettonico di un popolo felicemente pensieroso. Già, pensieroso: chi visita questa città, chi ci è nato, ora è in pensiero rispetto a quale anima appartenere – il mare o il duomo – e solo dopo un poco sa che può averle insieme e averle insieme in un modo strambo, come certe volte si passeggia senza meta ma con una rotta inconsapevole e in fondo in fondo chiara: il bel vagare, dove siamo un po’ così e un po’ cosà, e dove i cinema Apollo resistono per sempre, e anche i duomo paonazzi, e le villette delle feste, e giù giù giù puntando all’Adriatico lambito da un parco sul mare appena concepito che, cuce il piazzale del Grand Hotel alla sabbia delle colonie.

Dall’INA Casa a qui, oltrepassando il centro: meno di un’ora a piedi a cadenza romagnola, che significa svelti, adagio, divertiti. Godiamocela, perché le variazioni delle gambe portano a variazioni dell’anima, diceva Tonino Guerra, folletto che su questa terra ha declinato una poesia di moti e improvvisi fuoripista. Ecco perché bisognerebbe fare un gesto semplice in suo onore: prendere subito qualcosa da bere al Gran Hotel. Il cancello frontale è aperto, entrate, superate il giardino, salite i gradini e tagliate il patio, varcate la porta e infilatevi dentro, svoltate a destra e sedetevi sui divani rossi. Siete dove molti di loro del cinema si sedevano, compresa Sandra Milo che certe volte era di fretta ma ordinava un caffè e si accomodava comunque. Da una delle finestre si intravede l’orizzonte ceruleo che trascina fuori e batte la marcia per gli ultimi stabilimenti che dal numero otto arrivano alla spiaggia libera e alla Palata, con i pescherecci attraccati a vendere il pesce la mattina presto. È una lingua di cemento che indica due famiglie di scogli e due fari piccoli, scegliete il faro giallo. È storico, e veglia l’acqua in faccia alla Croazia. Se siete lì di sera, lo sciabordio dell’Adriatico risuona meglio e sembra l’eco di una percussione. È il suono che Alain Delon ascoltava in quelle notti del 1971, prima di fare dietrofront e ripercorrere il porto all’insù, quasi sul bordo, anche lui con l’espressione di chi appare non avere direzione e invece ce l’ha. Dove va Delon, stasera, con il suo cappotto cammello?

La storia, tramandata da riminese a riminese, racconta che dopo l’ultimo ciak della giornata – o della nottata – vagasse per un tragitto fisso che dalla Palata lo riportava al centro storico. Bighellonava avanti e indietro, si fermava al negozio che allora era l’Omnia e che adesso è la Coin, ne spiava le vetrine, più di una testimonianza lo ribadisce. Poi andava in Piazza Tre Martiri, lo videro entrare al Tempietto di Sant’Antonio e uscire frettoloso, per perdersi nell’aria d’inverno, riapparire al Ponte di Tiberio con il cappotto sottobraccio e il dolcevita largo al collo. Alla fine del ponte, si può scegliere se scendere al Parco Marecchia e camminare per circa un chilometro fino al campo da calcio, uscire e ritrovarsi a duecento metri dal cinema Apollo. È una camminata che facciamo tutti, e Alain Delon un tardo pomeriggio spuntò proprio lì, con le signore sulle panchine delle case popolari che se lo videro apparire. È il francese? È il divo? Lo hanno seguito, svelte adagio divertite, un poco a distanza ma nemmeno troppo, finché non ha rifiatato in largo Bordoni e si è rimesso in marcia verso il sentiero di sassi che passa intorno alla scuola. Delon e le signore dell’INA Casa, uno avanti le altre, con nuove anime di Rimini che si aggiungevano, senza mai sfiorarlo odirgli niente, arrivando all’aia davanti all’Apollo. «È un cinema» Delon lo aveva pronunciato senza punto interrogativo, in italiano. Si era avvicinato, e raccontano che fosse entrato e che lo avessero visto alla cassa a prendersi un biglietto anche se i film erano già iniziati. Era sparito in sala e nel frattempo fuori la voce si era sparsa e Rimini si era raccolta per aspettarlo. Ma lui non era mai uscito, nemmeno dopo i titoli di coda, e allora erano andati tutti dalla cassiera e le avevano chiesto del divo, e lei aveva alzato le spalle come a dire che non ne sapeva nulla. Forse se n’era andato dall’uscita di sicurezza che collegava al parcheggino di via Magellano, aveva proseguito perdendosi nella notte. Perdersi nella notte, a Rimini. Negli stessi scorci delle pellicole, anche se l’Apollo non c’è più e al suo posto hanno costruito una palazzina di quattro piani. Ci fermiamo sempre lì, come esistesse di nuovo, e immaginiamo ancora e sempre i film che daranno, e le rotelle di liquirizia, e certe code di macchine, e chi fuma all’intervallo uscendo sul piazzale, i divi imbucati a metà film, noi che ceniamo presto per avere le poltrone migliori. Immaginiamo ancora e sempre, a Rimini