Quindici minuti di applausi, la più lunga standing ovation in questa edizione del festival.
L’infinito segna l’esordio alla regia di Umberto Contarello: la storia di uno sceneggiatore che ha appena cambiato casa, deve ricostruire un rapporto con sua figlia e capire che cosa fare di sé stesso. È in sala questi giorni con PiperFilm. Contarello l’ha scritto insieme a Paolo Sorrentino, con cui ha collaborato più volte in passato (anche su La grande bellezza). L’infinito è un film che raccoglie una moltitudine di elementi e di spunti, ma allo stesso tempo è un film leggerissimo, perché si sofferma – mi dice Contarello, correggendomi – non sulle piccole cose ma sulle cose inutili. E l’inutilità, mi spiega, dà modo allo spettatore di immergersi in un film, osservandolo con uno sguardo differente. Non migliore e nemmeno peggiore. Solo, appunto, differente.
ⓢ L’infinito si apre con una dedica a Carlo Mazzacurati, con cui, in passato, hai collaborato spesso. Chi era per te Carlo Mazzacurati?
Il mio migliore amico. Ho condiviso con lui molti anni della nostra gioventù un po’ sventata a Padova; trascorrevamo le nostre giornata insieme a una tribù di compagni. Poi ci siamo frequentati a Roma, quando entrambi ci siamo trasferiti e abbiamo cominciato molto casualmente, leggeri e fiduciosi, a muovere i primi passi nel cinema. Abbiamo collaborato per diversi film: film che, per inciso, amo molto. Io mi sento fortunato, perché alla fine ho lavorato con tanti grandi autori. Però, in qualche modo, anche da un punto di vista anagrafico, Carlo è stato una sorta di porta: mi ha permesso non di apprendere, ma di avvicinarmi, passo dopo passo, all’idea di fare questo mestiere e di raccontare storie.
ⓢ Ci sono state altre porte come Mazzacurati?
Sicuramente Paolo (Sorrentino, ndr). Lui mi ha avvicinato a un’altra idea, e cioè quella di raccontare in modo diverso quello che Carlo aveva già seminato.
ⓢ Quanto c’è di autobiografico ne L’infinito? Sia tu che il protagonista vi chiamate Umberto; entrambi siete di Padova ed entrambi fate gli sceneggiatori. Ci sono altri tratti in comune?
Tu hai mai letto qualche romanzo di Carrère?
ⓢ Sì.
Ecco, questa è la risposta.
ⓢ Anche i tuoi amici, quelli più intimi, ti chiamano “Umbe”?
Tu vuoi che io ti sveli quello che, in qualche modo, in questo piccolo film, desta la curiosità. E quindi cos’è vero e cosa, invece, è inventato. Sai qual è il punto, però? Le persone spesso confondono ciò che è vero con ciò che è realmente accaduto.
ⓢ Qual è la differenza?
Una differenza abissale. Mentre un incidente stradale è realmente accaduto e si può certificare in tanti modi diversi, una cosa vera spesso non può essere certificata in alcun modo. E questo perché è vera tanto quanto è vero un fatto inventato. Ne L’infinito ho seminato qua e là delle piccole cose, non lo nego, come delle carte di identità, ma il resto voglio tenerlo per me.
ⓢ Come mai la scelta del bianco e nero?
Grazie a Daria D’Antonio (la direttrice della fotografia, ndr), che è riuscita grandiosamente a cogliere ciò che in modo nebuloso le raccontavo, e a Danilo Rea, che ha suonato le note essenziali dell’anima del protagonista di cui gli ho parlato sempre nebulosamente, è stato possibile catturare l’essenza del film. Che però non si riflette nel bianco e nero. Anche perché questo non è esattamente un bianco e nero. È una fotografia grigia. Sia Daria che Danilo mi hanno dato una mano nel mettere in risalto, nel dare luce, al protagonista: un uomo che sembra non avere più niente dentro di sé. Né la musica né, appunto, i colori.
ⓢ Perché a un certo punto si sente la necessità di dirigere un proprio film?
Io non ho sentito nessuna necessità. Non è stato il mio caso. Io non ho sentito niente, e non l’ho mai sentito. Sono cresciuto affidandomi completamente al caso. È stato Paolo a dirmi un giorno, durante una telefonata, “adesso dovresti farlo tu un film” e io gli ho detto “va bene”. Quindi non c’è stata nessuna necessità, nessuna ricerca di espressione, nessuna urgenza e nemmeno disillusione. Non c’è niente di tutto questo. Anche perché io sono stato molto fortunato. Gli autori con cui ho lavorato hanno sempre migliorato quello che scrivevo.
ⓢ Non ti è mai capitato di sentirti in qualche modo tradito?
No, mai. Anzi. No, no, no. Per l’amor di Dio. Chi ha questi pensieri dovrebbe cambiare mestiere.
ⓢ Tu avevi già fatto, con piccole parti, l’attore. Penso a Caro Diario di Nanni Moretti e a Il divo di Paolo Sorrentino. Ne L’infinito, però, sei protagonista. Come mai?
Quelle erano, appunto, piccole cose. Non pensavo di essere un attore. In questo caso, sai, è stato naturale. Non ci ho nemmeno pensato. Dopo tanti anni che ho condiviso con Paolo l’amicizia, il linguaggio comune, una forma di comunicazione infantile e mediatica, grazie alla quale ridiamo delle stesse cose e ci lamentiamo delle stesse cose, è stato ineluttabile e ovvio che interpretassi io il protagonista. Non si è mai discusso di questo. Un po’ come quando non si discute del respiro che si fa: quello è normale, è scontato. Si discute, semmai, del respiro che non si fa: è quello il problema.
ⓢ Dei punti in comune tra te e l’Umberto del film non vuoi parlare. Però ci sono, mi è sembrato, dei punti in comune tra l’Umberto del film e Jep Gamberdella, il protagonista de La grande bellezza: il suo rapporto con il domestico, per esempio; le passeggiate per Roma, la fascinazione per ciò che gli succede intorno.
Ho visto che qualcuno lo ha scritto, sì. Ma non è mai stata una scelta intenzionale. Lo dice molto meglio Carver, nell’introduzione de Il mestiere di scrivere: ci sono delle influenze che non sono consce, che non sono volute. Quindi è possibile che in questo marasma di suggestioni, di cose inconsapevoli, che non arrivano alla superficie della razionalità, si sia creato un qualche legame. Ma, da parte mia, non c’è stata nessuna volontà di avvicinarli.
ⓢ Ci sono dei momenti in cui Umberto, il protagonista, chiude gli occhi e immagina la storia…
No, no. No. Non immagina la storia. Cerca di salvare sé stesso e l’altra sceneggiatrice con cui sta collaborando. Quando nel film incontra la produttrice, cerca di darle il turning point che chiede. Non immagina la storia, no.
ⓢ Dove nasce l’ispirazione e dove si cercano le buone idee?
Le buone idee non si cercano. Emergono.
ⓢ Con questo film, mi pare che venga sottolineata l’importanza delle piccole cose.
Piccolo o grande, lungo o corto non sono unità di misura del cinema. Sono attribuiti che si usano quando si va, che ne so, in bicicletta o si parte per un viaggio. Nel cinema, si parla di utile e di inutile. Quindi, più che per le piccole cose, c’è spazio per le cose inutili. E io dico che l’inutilità apparente è molto importante perché è lo spazio dell’oblio e dell’abbandono; è lo spazio in cui chi legge o chi guarda pensa a sé e non al libro o al film. E pensare a sé significa che, in quei momenti, il film se lo sta portando via. E quindi l’inutilità può essere solo contemplata. E per me questa componente dell’inutilità è sempre stata molto importante, soprattutto nei film che amo.
ⓢ Secondo te nel nostro cinema si dà sempre meno spazio a questa inutilità?
Forse è l’effetto della pandemia di scuole di scrittura, che andrebbero tutte chiuse.
ⓢ Perché?
Perché insegnano una cosa che non esiste, servono solo a dare qualche lira a qualche stralunato insegnante, e sfornano centinaia di ragazzi e ragazze che pensano come degli impiegati.
ⓢ Qual è la qualità della solitudine di chi scrive?
Io credo che la solitudine, e a un certo punto emerge anche in una delle battute del film, sia una condizione comune a tutti. Perché siamo tutti soli. Poi ci sono quelli che utilizzano la solitudine per sviluppare e coltivare hobby, come i soldatini da dipingere o il disegno. E ci sono quelli che, nella solitudine, piangono. Altri, però, non utilizzano la solitudine, ma la vivono. Stare dentro la solitudine è una cosa molto diversa rispetto a usarla. Io vivo la solitudine per quello che è: una parte dell’esistenza che ha cittadinanza come tutto il resto.
ⓢ E invece la noia che parte è della vita? Mi pare che anche quella venga spesso sottovalutata.
Sì, questo lo dice Paolo. È uno dei suoi cavalli di battaglia (ride, ndr). Probabilmente si potrebbe dire che vivere è il tentativo di combattere all’arma bianca questa paura di annoiarsi, poi ci sono degli armistizi, in cui si scopre che il nemico, e cioè la noia, è uguale a noi.
ⓢ I ricordi, che pure sono uno dei temi de L’infinito, rappresentano più una spinta o un limite?
Dipende. In certi momenti della vita, soprattutto all’inizio, si trascorre molto tempo a vivere e a non ricordare, perché vivere, stare cioè nel presente, è più importante. Con il passare del tempo, invece, i ricordi si sostituiscono al vivere. E non si sente quasi più il bisogno di vivere. E questo perché scopriamo che i ricordi sono il nostro nuovo presente».
ⓢ Ti è mai capitato di scrivere qualcosa – una sceneggiatura, un racconto, anche un romanzo – e di decidere di tenerla per te stesso?
No, mai. Io sono una persona che odia la privacy. Non tengo niente per me. E ogni parte della mia vita, di chi sono, è molto nota. Non amo usare le metafore, ma ce n’è una che mi piace molto. Durante la Repubblica di Venezia, ci fu un doge che proibì l’utilizzo del mantello in caso di possesso di armi, come la spadina. E questo perché, chiaramente, voleva limitare al massimo la violenza. Quindi o si girava con la spadina in vista o con il mantello ma senza armi. Questo poi è diventato un modo di dire in Veneto che ancora si usa; quando qualcuno esce senza cappotto, si dice: sei uscito in spadina. Ecco, io sono uno perennemente in spadina. Nel senso che si vede tutto di me, non nascondo niente.
ⓢ Quanto c’entra la fede con la scrittura?
No, nella scrittura bisogna affidarsi. Affidarsi è una forma laica del credere.
ⓢ E l’Italia, che è un Paese profondamente cattolico, che convive quotidianamente con il Vaticano, sa ancora affidarsi?
Per l’amor di Dio, cerchiamo di mantenere un’eleganza di pensieri. Non confondiamo cose enormi con cose piccolissime. Io detesto la sociologia, perché parlando di una cosa come il mio film, che è una cosa piccola, mi si chiede del papa che è una cosa enorme. Non mi sembra congruo.
ⓢ I film, quando si dirigono, sono come figli? Bisogna lasciarli andare a un certo punto?
I film sono film, e i figli sono figli. Non li confonderei. Indubbiamente dipende molto dal momento della vita in cui si ha l’occasione di dirigere un film. Io mi sento fortunato, te lo dicevo anche prima. E sono felicissimo di averlo fatto e di poter incontrare, ora, le persone che vengono a vederlo. Ma un figlio, diciamoci la verità, è una cosa molto più seria di un film. Non scherziamo.