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I dazi turistici sono l’ultimo fronte nella guerra commerciale tra Stati Uniti ed Europa Mentre Trump impone agli stranieri una maxi tassa per l'ingresso ai parchi nazionali, il Louvre alza il prezzo del biglietto per gli "extracomunitari".
Papa Leone XIV ha benedetto un rave party in Slovacchia in cui a fare da dj c’era un prete portoghese Il tutto per festeggiare il 75esimo compleanno dell'Arcivescovo Bernard Bober di Kosice.
I distributori indipendenti americani riporteranno al cinema i film che non ha visto nessuno a causa del Covid Titoli molto amati da critici e cinefili – tra cui uno di Sean Baker e uno di Kelly Reichardt – torneranno in sala per riprendersi quello che il Covid ha tolto.
La presidente della Tanzania Samia Suluhu Hassan ha nominato il nuovo governo e ha fatto ministri tutti i membri della sua famiglia In un colpo solo ha sistemato due figlie, un nipote, un genero, un cognato e pure un carissimo amico di famiglia.
Sally Rooney ha detto che i suoi libri potrebbero essere vietati in tutto il Regno Unito a causa del suo sostegno a Palestine Action E potrebbe addirittura essere costretta a ritirare dal commercio i suoi libri attualmente in vendita.
In Francia è scoppiato un nuovo, inquietante caso di “sottomissione chimica” simile a quello di Gisèle Pelicot Un funzionario del ministero della Cultura ha drogato centinaia di donne durante colloqui di lavoro per poi costringerle a urinare in pubblico.
Dopo quasi 10 anni di attesa finalmente possiamo vedere le prime immagini di Dead Man’s Wire, il nuovo film di Gus Van Sant Presentato all'ultima Mostra del cinema di Venezia, è il film che segna il ritorno alla regia di Van Sant dopo una pausa lunga 7 anni.
Un esperimento sulla metro di Milano ha dimostrato che le persone sono più disponibili a cedere il posto agli anziani se nel vagone è presente un uomo vestito da Batman Non è uno scherzo ma una vera ricerca dell'Università Cattolica, le cui conclusioni sono già state ribattezzate "effetto Batman".

Politici, giornalisti e lettori: basta tweet

Perché le foto degli articoli e degli editoriali messe a disposizione sui social possono diventare un problema per i giornali e indebolire il discorso pubblico.

19 Agosto 2019

Ogni giorno politici, giornalisti e lettori fotografano con lo smartphone le interviste, gli articoli e gli editoriali ideati e scritti da una complessa macchina editoriale volta a confezionare un giornale, non importa se di carta o digitale, e poi le mettono a disposizione dei propri contatti sui social network. Tutto molto bello ed egalitario, perché le news non sono un prodotto elitario ed è giusto che le informazioni raggiungano anche chi non compra un quotidiano o non si abbona al servizio premium di un sito. Ma se si aggiungono le chat su Whatsapp e su Telegram con i file pdf integrali di tutti i giornali e, a queste, anche la riproducibilità delle rassegne stampa, cioè i servizi di selezione degli articoli più importanti che le istituzioni e le grandi aziende offrono ogni giorno ai loro dipendenti e costoro, a loro volta, ai propri contatti social, si capisce perché l’industria editoriale sia a corto di lettori, di consumatori e di clienti disposti a pagare per informarsi.

Se un’azienda impiega due o tre persone – più i costi della stampa e della distribuzione del manufatto cartaceo o dei coders e dei server necessari alla messa online – per produrre un articolo che poi viene fotografato e condiviso gratuitamente sul web, e magari quelle due o tre persone, legate ex articolo 1 al contratto nazionale giornalistico che prevede l’obbligo di rispettare l’esclusiva, trascorrono buona parte del loro tempo a dare notizie e a commentarle su Twitter, cioè su una piattaforma concorrente rispetto al giornale di cui sono dipendenti, la spirale negativa diventa ancora più difficile da invertire.

Le informazioni girano, i narcisi dei social conquistano seguito e acquisiscono status, i compilatori delle rassegne stampa vendono i loro servizi multitestata, le piattaforme tecnologiche aumentano traffico e incamerano dati per migliorare la profilazione dell’utente che gli investitori pubblicitari raggiungono più agevolmente disinvestendo dai media tradizionali per concentrarsi sui social, ma a perderci non sono solo gli imprenditori delle notizie e di conseguenza i loro dipendenti, entrambi costretti a ridimensionare le operazioni editoriali e quindi a tagliare i costi per le inchieste, per gli uffici di corrispondenza, per gli approfondimenti e per la qualità del prodotto. Il problema è che a uscirne indebolito è il discorso pubblico, senza il quale non ci può essere un’opinione pubblica informata e formata sui fatti e quindi nemmeno una società adulta e una democrazia compiuta.

Non ci sono soluzioni semplici, e manca qualsiasi tipo di regolamentazione delle piattaforme digitali, ma qualcosina di buon senso si potrebbe fare. Twitter e Facebook sono di fatto i più diffusi, ricchi e autorevoli editori del mondo, perché offrono in anteprima le notizie riportate dai più celebrati giornalisti e i commenti delle migliori firme del pianeta su qualsiasi argomento possibile, senza per questo sborsare un centesimo per i contenuti ricevuti gratuitamente dai giornalisti e dalle grandi firme, limitandosi a stuzzicare la loro vanagloria e lasciando pagare il conto agli editori tradizionali che sono sempre più in difficoltà proprio perché i loro dipendenti contribuiscono a rendere inutile il business tradizionale dell’informazione.

I giornali potrebbero concordare con gli intervistati che no, l’intervista non può essere fotografata sui social e neppure ricopiata sui siti personali, anche perché per diffondere il loro verbo, oltre alla copia cartacea, sono più che sufficienti i link al sito del giornale stesso. Gli editori potrebbero ridisegnare il concetto di esclusiva del contratto collettivo nazionale dei giornalisti, estendendolo anche ai pensierini sui social, perché se sei dipendente di un’azienda che produce pensiero non puoi esprimerlo a maggior beneficio del maggior concorrente del tuo datore di lavoro. Andrebbero regolamentate, e monetizzate, anche le rassegne stampa, e vietata la riproduzione degli articoli su cui lucrano alcuni siti, perché la copertura integrale dei contenuti va ben oltre il sacrosanto diritto di cronaca. Naturalmente, non si farà nulla di tutto questo, ma continueremo a fasciarci la testa sul pericolo delle fake news, sulla degenerazione di una società che non tiene più conto dei dati di fatto e sulla crisi della democrazia.

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