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16:54 sabato 20 dicembre 2025
Di Digger di Alejandro G. Iñárritu non sappiamo ancora niente, tranne che un Tom Cruise così strano e inquietante non si è mai visto La trama della nuova commedia di Iñárritu resta avvolta dal mistero, soprattutto per quanto riguarda il ruolo da protagonista di Tom Cruise.
C’è un’estensione per browser che fa tornare internet com’era nel 2022 per evitare di dover avere a che fare con le AI Si chiama Slop Evader e una volta installata "scarta" dai risultati mostrati dal browser tutti i contenuti generati con l'intelligenza artificiale.
Kristin Cabot, la donna del cold kiss-gate, ha detto che per colpa di quel video non trova più lavoro e ha paura di uscire di casa Quel video al concerto dei Coldplay in cui la si vedeva insieme all'amante è stata l'inizio di un periodo di «puro orrore», ha detto al New York Times.
I Labubu diventeranno un film e a dirigerlo sarà Paul King, il regista di Paddington e Wonka Se speravate che l'egemonia dei Labubu finisse con il 2025, ci dispiace per voi.
Un reportage di Vanity Fair si è rivelato il colpo più duro inferto finora all’amministrazione Trump Non capita spesso di sentire la Chief of Staff della Casa Bianca definire il Presidente degli Stati Uniti una «alcoholic’s personality», in effetti.
Il ministero del Turismo l’ha fatto di nuovo e si è inventato la «Venere di Botticelli in carne e ossa» come protagonista della sua nuova campagna Dopo VeryBello!, dopo Open to Meraviglia, dopo Itsart, l'ultima trovata ministeriale è Francesca Faccini, 23 anni, in tour per l'Italia turistica.
LinkedIn ha lanciato una sua versione del Wrapped dedicata al lavoro ma non è stata accolta benissimo dagli utenti «Un rituale d'umiliazione», questo uno dei commenti di coloro che hanno ricevuto il LinkedIn Year in Review. E non è neanche uno dei peggiori.
C’è una specie di cozza che sta invadendo e inquinando i laghi di mezzo mondo Si chiama cozza quagga e ha già fatto parecchi danni nei Grandi Laghi americani, nel lago di Ginevra e adesso è arrivata anche in Irlanda del Nord.

Tutto è Shakespeare

Il 23 aprile si celebra il 400esimo anniversario della morte dell'autore inglese. Perché letteratura, intrattenimento e società non possono prescindere dalle sue opere.

23 Aprile 2016

Una compagnia teatrale si aggira faticosamente tra le rovine del mondo dopo la fine del mondo: in ogni accampamento, presso ogni comunità che incontrano, mettono in scena Shakespeare per ricordare ai pochi sopravvissuti cosa significa essere umani.

È la storia di un bel romanzo uscito un paio di anni fa (e colpevolmente affondato nell’indifferenza generale qui da noi l’anno dopo) di Emily St. John Mandel, Stazione undici (Bompiani). Quando Mandel si è chiesta quale simbolo universale scegliere per incarnare la resistenza della civiltà ha scelto – senza nemmeno pensarci troppo, immagino – William Shakespeare.

Stazione undici è romanzo d’ambientazione fantascientifica (con cui Mandel ha vinto l’Arthur C. Clarke Award) e di grande valore letterario (finalista al National e al PEN/Faulkner): mi piace cominciare da qui, allora, perché c’è già un elemento, anzi due che tornano in ogni discussione su Shakespeare. La sua universalità e il suo mettere in crisi qualsiasi gerarchia – in questo caso tra alto e basso, letterario e “di genere”.

Se invece pensavate che la particolarità fosse l’ambientazione catastrofica, tranquilli: esiste un intero filone di studi shakespeariani post apocalittici.

Theatregoers Enjoy The Sunshine During A Performance At The Globe

Dire che Shakespeare è moderno non è certo un’idea moderna. Ogni epoca ha pensato sé stessa come shakespeariana e proprio per questo moderna. Tanto che a volte i due termini si confondono o appaiono intercambiabili. A dire il vero l’unica epoca che non si è detta shakespeariana è stata quella di Shakespeare: quando morì il 23 aprile 1616 e fu seppellito nella chiesa della Trinità a Stranford la sua morte ebbe un’eco poco più che locale. Nessuno propose di deporlo nell’Abbazia di Westminster, né la notizia fece il giro d’Europa attraverso gazzettini o elegie in sua memoria: al tempo era visto più che altro come un rispettabile professionista dell’intrattenimento, un maestro di qualcosa che indubbiamente regalava piacere al suo pubblico ma non conferiva lustro e nobiltà a chi lo faceva. Solo a sette anni dalla morte, quando vennero riunite in volume le sue opere e grazie all’introduzione che di esse scrisse Ben Jonson, si iniziò a riconoscerne la grandezza.

Una grandezza che ancora oggi ci sfugge in tutte le sue ricadute. E per un semplice motivo: perché vi siamo ancora così immersi che non ne percepiamo i confini, non ne vediamo con precisione i lasciti. Molte delle cose che consideriamo “naturali”, o semplicemente umane, sono shakespeariane. A cominciare dalla lingua: Shakespeare è stato soprattutto un sublime inventore di parole, un divino giocoliere del linguaggio. Migliaia di parole inglesi sono state letteralmente inventate da lui. Ma anche per i non anglofoni il bagaglio di espressioni che arrivano dai suoi testi è enorme. Senza contare quella che è forse l’eredità più importante: il repertorio di storie, personaggi, trovate narrative di cui i suoi drammi sono pieni. Basti pensare per l’Italia a quanto Shakespeare sia stato mediato nell’Ottocento attraverso i libretti d’Opera rendendolo così famigliare al grosso pubblico (spesso appena alfabetizzato) tanto se non più di Dante. Shakespeare era, se vogliamo, un prodotto globale già all’origine: ben note, infatti, sono le fonti dei suoi testi, in gran parte riconducibili alla novellistica italiana e alla mitologia greco-latina.

L’Imdb elenca più di 6000 pellicole tratte esplicitamente da Shakespeare – a cominciare dai 63 adattamenti di Amleto – mentre quelle semplicemente ispirate a lui sono innumerevoli. Il fatto è che siamo tutti immersi in uno Shakespeare quotidiano, quasi inconscio. Forse l’ambito dove è più evidente la sua impronta è in quei racconti popolari ma narrativamente sofisticatissimi che sono le serie televisive. Game of Thrones è l’esempio più eclatante: del resto George R.R. Martin non ha mai nascosto di aver ricalcato quasi pari pari lo svolgimento della Guerra delle due rose come spunto iniziale per il suo gioco del Trono, con gli Stark nella parte degli York e i Lannister a fare i Lancaster – vicende narrate dal Bardo nell’Enrico VI e in Riccardo III. La luciferina grandezza di Riccardo III è evidente anche in Frank Underwood, esaltata dall’accostamento di una perfetta Lady Macbeth quale è sua moglie Claire. Empire, con il signore dei dischi Lucious Lyon che deve decidere a chi lascerà la sua casa discografica tra i tre figli, è un divertente Re Lear più Beautiful in salsa hip hop. E in fondo Lost cos’era, con i suoi aerei spiriti isolani e i suoi mostri calibaneschi, con i suoi naufraghi e col suo Prospero a capo degli Altri che intesseva magie, se non una versione d’appendice della Tempesta?

Il fatto è che per scrittori e registi inglesi e, paradossalmente, ancora di più americani, Shakespeare è l’aria che respirano fin dalle scuole. Pensate al topos della recita al liceo di ogni teen-commedy che si rispetti: molto probabilmente quello che i personaggi dovranno recitare sarà Romeo e Giulietta. Già, gli americani: qualche giorno fa il Guardian scriveva di come Shakespeare, al pari di Benedict Cumberbatch, sia passato dall’essere tesoro nazionale a patrimonio stelle e strisce. Tra l’altro proprio Cumberbatch è stato interprete di uno straordinario Amleto al Barbican Theater: in ottobre una replica dello spettacolo è stata trasmessa in diretta nei cinema inglesi. A quanto pare, quella sera, l’87% dei cinema trasmetteva Cumberbatch che recitava il malinconico principe di Danimarca. Lo spettacolo si potrà vedere anche nei cinema italiani il 19 e 20 aprile.

Theatregoers Enjoy The Sunshine During A Performance At The Globe

Shakespeare è anche un’ottima lente per leggere la politica (del resto se c’è un tema eminentemente shakespeariano quello è il potere e la sua legittimità) e l’economia: alcune aziende di consulenza insegnano Shakespeare a manager e dirigenti e basta fare un salto su Amazon per trovare decine di libri che pretendono di insegnare “la leadership” attraverso i personaggi shakespeariani.

Shakespeare è stato – ed è – il campo di battaglia e la posta in palio di praticamente ogni battaglia culturale degli ultimi cento anni. C’è stato lo Shakespeare imperialista, voce monologica dell’Impero, contrapposto allo Shakespeare postcoloniale, raffinato decostruttore dello sguardo etnocentrico; lo Shakespeare maschilista e quello femminista e quello queer; Shakespeare post-strutturalista che fa a pugni con lo Shakespeare “inventore dell’uomo” di Harold Bloom; Shakespeare antisemita (certe letture del Mercante di Venezia) contro lo Shakespeare antifondamentalista (nel Mercante il vero obiettivo polemico non sono gli ebrei, ma i Puritani). Shakespeare e Star Wars, Shakespeare e i fumetti (chiedete a Neil Gaiman: le apparizioni del Bardo in Sandman sono tra le pagine più belle  della letteratura disegnata), Shakespeare e la pubblicità, la musica pop, la globalizzazione. Shakespeare e il porno.  All’infinito.

Il fatto è che Shakespeare, a questo punto, potrebbe sembrare un simbolo vuoto, un vascello ora di questa ora di quell’altra idea. In realtà è vero proprio il contrario. In Shakespeare alto e basso si scambiano continuamente di posto, così come destra e sinistra: Shakespeare è l’inventore del moderno perché è l’emblema della mobilità, della circolazione di idee, storie, personaggi, simboli. Non è un caso che tanta della sua fortuna sia legata all’espansione del libro a stampa e alla trasportabilità, economicità e diffusione che ciò comporta.

Ma se dovessi usare un’immagine più contemporanea, direi che Shakespeare è un meme, un pacchetto di informazioni che, sotto forma di personaggi o trame o atmosfere, circola viralmente all’interno di una cultura. Ma a differenza dei memi coi gattini, quelli shakespeariani “contengono le istruzioni” per simulare l’umano e per agire nel mondo. Il maggiore studioso di Shakespeare vivente, Stephen Greenblatt, in un recente articolo della New York Review of Books cita le teorie della “personalità distribuita”. L’idea viene dall’antropologia, in particolare dagli studi di Alfred Gell sulla capacità dei manufatti artistici (ad esempio le decorazioni sulle imbarcazioni delle isole Trobriand) di manipolare l’agency dei fruitori, creando l’illusione di trovarsi di fronte a persone viventi. «Shakespeare», scrive Greenblatt, «ha creato centinaia di questi agenti secondari, i suoi personaggi, alcuni dei quali sembrano liberamente uscire dalle strutture narrative in cui si svolgono le loro vicende e acquistare una volontà che normalmente riserviamo alle persone reali. Parliamo delle opere di Shakespeare come se queste fossero riflessi stabili delle sue intenzioni originarie: però continuano a circolare proprio perché sono così suscettibili alla metamorfosi. Hanno abbandonato il loro mondo per diventare parte di noi. E quando noi saremo scomparsi, loro continueranno a vivere, magari leggermente cambiate dall’aver sfiorato le nostre vite e destini, e diventeranno parte di altre umanità che Shakespeare non poteva certo prevedere e che noi possiamo a malapena immaginare».

Shakespeare è un virus.

Immagini: in copertina il cottage di Anne Hathaway, moglie di Shakespeare, il 27 giugno 2011 (Christopher Furlong/Getty Images); nel testo il pubblico assiste a una messa in scena di Sogno di una notte di mezza estate al Globe nel 2013 (Oli Scarff/Getty Images)
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