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L’episodio di Stranger Things in cui Will fa coming out è diventato quello peggio recensito di tutta la serie E da solo ha abbassato la valutazione di tutta la quinta stagione, nettamente la meno apprezzata dal pubblico, almeno fino a questo punto.
Il progetto europeo di rilanciare i treni notturni sta andando malissimo Uno dei capisaldi del Green Deal europeo sulla mobilità, la rinascita dei treni notturni, si è arenato tra burocrazia infinita e alti costi.
Un’azienda in Svezia dà ai suoi lavoratori un bonus in busta paga da spendere in attività con gli amici per combattere la solitudine Il progetto, che per ora è solo un'iniziativa privata, prevede un’ora al mese di ferie e un bonus di 100 euro per incentivare la socialità.
Diverse celebrity hanno cancellato i loro tributi a Brigitte Bardot dopo aver scoperto che era di estrema destra Chapell Roan e altre star hanno omaggiato Bardot sui social per poi ritirare tutto una volta scoperte le sue idee su immigrazione, omosessuali e femminismo.
È morta la donna che restaurò così male un dipinto di Cristo da renderlo prima un meme, poi un’attrazione turistica Nel 2012, l'allora 81enne Cecilia Giménez trasformò l’"Ecce Homo" di Borja in Potato Jesus, diventando una delle più amate meme star di sempre.
C’è un’associazione simile agli Alcolisti Anonimi che aiuta le persone dipendenti dall’AI Si chiama Spiral Support Group, è formato da ex "tossicodipendenti" dall'AI e aiuta chi cerca di interrompere il rapporto morboso con i chatbot.
I massoni hanno fatto causa alla polizia inglese per una regola che impone ai poliziotti di rivelare se sono massoni Il nuovo regolamento impone agli agenti di rivelare legami con organizzazioni gerarchiche, in nome della trasparenza e dell’imparzialità.
Il primo grande tour annunciato per il 2026 è quello di Peppa Pig, al quale parteciperà pure Baby Shark La maialina animata sarà in tour in Nord America con uno show musicale che celebra anche i dieci anni di Baby Shark.

Trump e il nuovo caos mondiale

Dai dazi all'immigrazione, il presidente americano sta demolendo i rapporti e le alleanze su cui si basava il mondo uscito dalla Seconda guerra mondiale.

20 Giugno 2018

Il presidente americano Donald Trump sta costruendo un nuovo ordine mondiale, anche se in realtà sembra un nuovo disordine mondiale, di cui ancora non si conoscono bene i contorni e nemmeno le conseguenze. Il mondo che conosciamo nasce Settanta anni fa dall’intuizione strategica americana secondo cui il modo più efficace per guidare il mondo e far progredire la società è quello di garantire la libera circolazione di persone, di merci e di idee, oltre che la diffusione della democrazia. Un modello di società che, dopo il 1989, si è esteso con dei limiti nell’Est europeo e in Asia, fino ad arrivare timidamente anche in Africa, assicurando un benessere condiviso e migliorando le condizioni di vita di alcuni miliardi di persone. Questo modello è in crisi e non è detto che sia adatto ai profondi cambiamenti che la rivoluzione digitale e la crescita della Cina hanno apportato all’economia globale: Trump, insomma, potrebbe essere il sintomo, non la causa del problema.

Resta il fatto che, in assenza di modelli alternativi al sistema attuale, Trump sta demolendo la struttura di rapporti, di alleanze e di istituzioni multilaterali su cui si basa il mondo uscito dalla Seconda guerra mondiale. Non li considera utili a servire il principio di America First, di America prima di tutto, e per questo ridicolizza il G7, smantella l’Organizzazione mondiale del commercio (WTO), dichiara guerre commerciali contro i partner di sempre, apre fronti pericolosi con gli avversari, alimenta le tensioni in Medio Oriente, dal Qatar alla questione di Gerusalemme, e addirittura apre due crisi nucleari contemporaneamente, violando una delle regole auree della politica estera americana, quella per cui non si apre più di una crisi nucleare nello stesso momento. La furia iconoclasta di Trump sbriciola anche questo pilastro della sicurezza nazionale di Washington, prima ritirandosi unilateralmente dal patto nucleare con l’Iran, poi incontrando il dittatore nordcoreano Kim Jong-un. Vedremo i dettagli dell’accordo di Singapore, ma per il momento sembra che abbia ottenuto più o meno quanto era già stato messo nero su bianco nel 1990, con risultati miseri. Secondo molti analisti, in ogni caso, il piano di denuclearizzazione della penisola coreana firmato a Singapore è meno cogente del patto nucleare con l’Iran che Trump definì «l’accordo peggiore di sempre».

La doppia mossa Iran-Corea, la prima che rompe un patto sul nucleare e la seconda che ne sigla un altro, sfugge a ogni tipo di coerenza strategica perché Trump non è un presidente tradizionale e non è nemmeno un ideologo interessato a codificare una dottrina attraverso cui poter interpretare la visione e le scelte dell’Amministrazione. La dottrina Trump è Donald Trump medesimo. La questione del commercio mondiale è ancor più emblematica del suo modo di agire e potenzialmente è quella che avrà il maggiore impatto. Nel giro di un paio di giorni, quelli intorno al summit del G7 dei primi di giugno in Canada, Trump ha iniziato quattro guerre commerciali una dietro l’altra. Contemporaneamente. Una contro la Cina sul deficit commerciale, una contro il Messico e il Canada sul trattato di libero scambio nordamericano (NAFTA), una contro l’Europa e il resto del mondo sulle tariffe e una con il WTO sulle regole del commercio mondiale. Qualche mese prima aveva anche fatto saltare gli accordi commerciali con undici paesi del Pacifico, che ora sono pronti a guardare all’offerta cinese.

Non è mai successa una cosa del genere: una guerra commerciale dell’America contro tutto il mondo, nello stesso momento, sovvertendo un sistema di cui fino a ieri Washington era il garante e il primo beneficiario. Il paradosso è che chi ne sta traendo vantaggio non è l’America, né il consumatore americano che si vedrà aumentare il prezzo di molti prodotti quando scatterà la rappresaglia protezionista degli alleati, ma la coppia di avversari storici degli Stati Uniti e dell’ordine mondiale post bellico: la Russia di Vladimir Putin e la Cina di Xi Jinping. Putin sta incassando il successo della sua campagna strategica per dividere l’Occidente e incrementare il caos mondiale, in attesa di vedere nei prossimi mesi, quando si chiuderà l’inchiesta americana del procuratore Mueller, il grado di coinvolgimento del mondo Trump nella realizzazione del progetto del Cremlino. Come ha detto Susan Rice, Consigliere per la sicurezza nazionale ai tempi di Barack Obama, non c’è nessuna prova che Putin stia dettando l’agenda politica americana, ma se lo stesse davvero facendo sarebbe difficile immaginare un risultato migliore per il leader russo.

La Cina, invece, sta provando a colmare il vuoto politico e commerciale lasciato da Trump e a corteggiare soprattutto l’Europa, ma anche il Giappone e altri paesi asiatici. E mentre il presidente americano non fa partire il grande piano per le infrastrutture domestiche, che oggi non è più all’altezza del rango di superpotenza degli Stati Uniti, Pechino finanzia la nuova via della Seta analogica e digitale, fatta di autostrade, ponti, treni ad alta velocità e fibra ottica per Internet, che legherà sempre di più l’Asia a guida cinese con l’occidente europeo e l’Africa. Anche Obama ci ha messo di suo, lasciando costruire ai cinesi le isole artificiali nel Pacifico che sono diventate avamposti militari di Pechino nei mari dove per oltre mezzo secolo la Marina America ha protetto le rotte commerciali. Il rischio concreto è che nei prossimi decenni il controllo del commercio passi dagli americani ai cinesi, e non è la stessa cosa se a dettare le regole d’ingaggio sarà il regime autoritario di Pechino anziché la più grande democrazia del mondo.

È ancora possibile, ovviamente, che tutti questi fronti si risolvano positivamente, sia quelli commerciali sia quelli nucleari sia quelli politici, ma ogni giorno che passa appare sempre più improbabile che Trump torni sui suoi passi o che gli alleati europei e asiatici continuino a subire le mattane del presidente o che Cina e Russia decidano di non approfittare del caos mondiale che un po’ hanno creato loro e un po’ Trump gli ha regalato. Lui dice che l’ordine mondiale sfavorisce gli Stati Uniti e sa che questo messaggio piace all’elettorato americano colpito dalla delocalizzazione delle fabbriche e dall’innovazione tecnologica. La misura del disagio americano, secondo Trump, è la bilancia commerciale. Se l’America importa più beni di quanti ne esporta, secondo lui e alcuni dei suoi consiglieri, non va bene, bisogna riequilibrare, serve reciprocità. La gran parte degli economisti, però, crede che il deficit commerciale sia un indicatore fuorviante per stabilire se i trattati di scambio convengono o meno ai paesi che li firmano, anche perché la differenza tra import ed export è dettata da fattori macroeconomici e non dalle politiche commerciali. Tra l’altro nel deficit commerciale americano, che è di 800 miliardi, Trump considera soltanto i beni materiali e non i servizi, a cominciare da quelli finanziari, su cui l’America può vantare un surplus.

C’è, infine, la questione della libera circolazione delle persone, mai messa in discussione come in questi tempi. Il primo atto di Trump da presidente è stato quello del divieto di ingresso negli Stati Uniti di chiunque provenisse, anche solo di passaggio, da un certo numero paesi islamici. Mentre uno degli ultimi, sotto l’egida della tolleranza zero, è stato quello di separare i figli degli immigrati clandestini dai genitori. Se a questo si aggiungono la volontà di costruire un muro lungo il confine con il Messico e le baruffe al Nord con il Canada, vuol dire che è davvero vicina la trasformazione dell’America da luogo ideale del riscatto civile e sociale a fortezza inaccessibile e inospitale. Cioè la mutazione genetica dell’America da America ad anti America.

Foto Getty
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