Cultura | Letteratura

La spettacolare autodistruzione di Truman Capote

La racconta una serie, Feud: Capote vs. The Swans, diretta da Gus Van Sant: la storia di come lo scrittore divenne l'uomo più odiato dall'alta società newyorchese, del suo capolavoro incompiuto, della sua morte.

di Studio

«Perché ho davvero bisogno di qualcuno con cui parlare. E grazie a Dio, Jonesy, quel qualcuno sei tu», dice Lady Ina Coolbirth nel primo paragrafo di “La Côte Basque, 1965”, secondo capitolo del romanzo che Truman Capote non è mai riuscito davvero a finire. Capote era ancora vivo e già definiva Preghiere esaudite, questo il titolo che aveva scelto, il suo romanzo postumo: «Perché se non lo uccido io, sarà lui a uccidere me», spiegava in un’ospitata al Dick Cavett Show del maggio 1971. Era una battuta ed era la verità: Preghiere esaudite verrà pubblicato nel 1986, due anni dopo la morte di Capote, in inglese con il sottotitolo The Unfinished Novel. Nel frattempo lui si era già rovinato la reputazione, completando un processo di autodistruzione di cui questo romanzo fu parte fondamentale. «Ero abbonato a Esquire quando pubblicò “La Côte Basque, 1965” e sapevo che quella fu un po’ la sua [di Capote, ndr] fine, che a causa di quel racconto si era inimicato le persone di cui aveva scritto», ha raccontato Gus Van Sant. L’autodistruzione di Capote lo ha affascinato per decenni, ma non è mai riuscito a trarne un film: nessuno sembrava condividere il suo interesse per quella che lui invece considerava «una grande storia americana». Una sera però si è ritrovato a cena assieme allo sceneggiatore Jon Robin Baitz, che gli raccontava entusiasticamente il progetto al quale stava lavorando in quel periodo: un adattamento televisivo del libro Capote’s Women: A True Story of Love, Betrayal, and a Swan Song for an Era di Lawrence Leamer, prodotto da Ryan Murphy, seconda stagione della serie antologica Feud in onda sul canale via cavo FX. «La storia di come Truman Capote si è autodistrutto, in sostanza», gli spiegò Baitz. «Ma ce lo avete già un regista?», gli chiese Van Sant. Con quella conversazione è cominciata Feud: Capote vs. The Swans, da ieri in onda su FX negli Usa, prossimamente disponibile su Disney+.

«Vuoi sentire una storia veramente disgustosa? Davvero vomitevole», è un’altra frase pronunciata da Lady Ina in “La Côte Basque, 1965”, rivolta sempre a Jonesy, il personaggio surrogato dell’autore. Erano gli incipit preferiti di Capote, il segnale di cui aveva bisogno per prestare attenzione vera alla confessione, all’indiscrezione, al pettegolezzo della swans di turno. Swans era il soprannome che aveva dato alle sue amiche, all’élite femminile di New York, le socialite che sapevano tutto di tutti, pubbliche virtù e soprattutto vizi privati. Tra le swans c’erano Babe Paley (nella serie interpretata da Naomi Watts), moglie del dirigente Cbs William Paley, dalle riviste di moda dell’epoca considerata la donna meglio vestita del mondo; Nancy “Slim” Keith (Diane Lane), moglie di Howard Hughes, amante di Clark Gable, compagna di caccia di Hemingway; C.Z. Guest (Chloë Sevigny), soggetto prediletto delle foto di Slim Aarons; Lee Radziwill (Calista Flockhart, che torna a recitare dopo una lunghissima pausa seguita ad Ally McBeal, interrotta solo da qualche comparsata qua e là), la sorella minore di Jackie Kennedy; Ann Woodward (Demi Moore), la protagonista dello “Shooting of the Century”, come Life Magazine definì l’incidente in cui morì il marito William; Marella Agnelli, e la lista potrebbe continuare a lungo.

Norman Mailer, suo grande e affezionato nemico, era uno di quelli che faticavano a capire la passione di Capote per le frivolezze dei ricchi e potenti: «New York ha risucchiato tutto il suo talento», spiegava Mailer a George Plimpton in quella splendida biografia composta da interviste in cui «diversi amici, nemici, conoscenti e detrattori ricordano la sua vita turbolenta». Dal canto suo, Capote cercava di spiegare che la sua attrazione per le swans non aveva (quasi) quasi nulla a che fare con i soldi: «Se dovessi considerare soltanto il patrimonio, diversi dei miei cigni sarebbero passeri», scherzava. Le swans erano per lui bellezza, eleganza, status, astuzia, brillantezza, talento narrativo. Come scrive Leamer nel suo libro, Capote considerava le vite di queste donne come delle performance artistiche, e se stesso come il curatore della galleria che queste performance le ospitava.

Gore Vidal, altro vero e spietato nemico, diceva che Capote voleva essere il Proust americano, ma non si era mai preso il disturbo di leggerlo, Proust. Secondo Vidal, la megalomania e l’inadeguatezza spiegano il disastro di Preghiere esaudite molto meglio della tossicodipendenza e dell’alcolismo. Capote aveva sempre detto che Preghiere esaudite sarebbe stato il suo magnum opus, il romanzo in cui avrebbe raccontato tutto ciò che di interessante c’era da raccontare attraverso le bocche di migliaia di personaggi. «Tutte le persone con le quali ho mai avuto a che fare nella mia vita», diceva. Il problema era proprio quello: che con quelle persone lui ci aveva avuto a che fare davvero, era stato il loro amico, confidente e confessore per anni. La galleria d’arte che aveva curato per tutto quel tempo, e le performer che aveva seguito con tanta ammirazione: amava troppo l’una e le altre, troppo per cambiare anche solo un dettaglio dell’una e delle altre. Nell’archivio in cui aveva conservato quello che voleva mettere in Preghiere esaudite c’era talmente tanto materiale che era praticamente impossibile trarne un romanzo. Aveva cominciato a scriverlo nel 1960, lo aveva abbandonato per il tempo necessario a diventare uno dei più grandi e famosi scrittori americani viventi, ma ci era tornato sempre, subito e comunque. Ma non bastava: Capote non rispettò nessuna delle scadenze fissate dal suo editore Random House, dopo quindici anni aveva finito davvero soltanto un paio di capitoli. Il primo, intitolato “Mojave”, fu pubblicato su Esquire nel giugno del ’75. Fu un successo di critica e per Capote la prova che, nonostante il disfacimento di corpo e spirito al quale negli anni si era religiosamente dedicato, il non fiction novel era ancora un trucco letterario che nessuno padroneggiava come lui.

C’era chi però aveva capito quanto rischiosa fosse l’operazione. Gerald Clarke, amico e biografo di Capote, gliene aveva parlato e lo aveva apertamente avvisato: se la gente di cui scrivi capisce che è di loro che stai scrivendo, passerai i guai, gli aveva detto. Ma con “Mojave” non era successo quello che temeva Clarke, quindi perché preoccuparsi, rispondeva Capote. La coppia protagonista di “Mojave” era evidentemente – per tutti quelli che sapevano – ispirata a Babe e William Paley. Ma in quel primo estratto di Preghiere esaudite, Capote aveva avuto l’accortezza di attenersi alle regole del roman à clef – nelle sue velleità proustiane Capote pretendeva che tutti definissero il suo capolavoro con l’adeguato francesismo – e le swans si sentivano ben protette dietro quel sì sottilissimo, ma pur sempre resistente, velo di finzione. Fu il secondo capitolo, “La Côte Basque, 1965” (nome di un notissimo ristorante francese di Manhattan) a realizzare la profezia di Clarke. In questo capitolo si facevano nomi – quelli di Cole Porter, di Gloria Vanderbilt, della principessa Margaret, tra gli altri – si usavano aggettivi come “porcino” riferiti a certi volti di certe persone, si lanciavano accuse di omicidio ai danni del personaggio ovviamente ispirato ad Ann Woodward. I Paley per primi giurarono vendetta a Capote e ne fecero un traditore prima, uno zimbello poi, un emarginato alla fine.

Il colpo di grazia, per Capote, fu vedere l’indifferenza con la quale furono accolti i successivi due capitoli pubblicati su Esquire, “Unspoiled Monsters” e “Kate McCloud”. Il suo editor dell’epoca, Joseph Fox, ha raccontato a Electric Literature che da quel momento in poi Capote era sempre troppo ubriaco o troppo strafatto per scrivere. O, peggio, per riconoscere la buona scrittura da quella cattiva: Fox è sicuro che Capote abbia completato almeno altri quattro capitoli di Preghiere esaudite, ma li abbia distrutti in una serie di crisi psicotiche indotte dall’alcol e/o dalle droghe. Per questo e per tante altre ragioni, la storia del manoscritto di Preghiere esaudite è diventata leggenda letteraria, raccontata ancora oggi, a quasi vent’anni dalla pubblicazione del romanzo postumo e incompleto: uno dei più bravi a raccontarla, questa leggenda, è stato Sam Kashner su Vanity Fair.

Truman Capote non è mai stato un uomo capace di autentica ammissione di colpa. Ma riscoprendo la storia della sua autodistruzione, e rivedendola in Feud: Capote vs. The Swans, noi sappiamo che fu sbagliata la risposta che diede a Gerald Clarke, quando quest’ultimo gli disse che se le persone di cui aveva scritto avessero capito che era di loro che aveva scritto, per lui sarebbero stati guai grossi. «Ma va’», rispose Capote, «sono troppo stupide per accorgersene».