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Essere infelici fa bene, almeno da un punto di vista evolutivo

03 Novembre 2016

Negli anni Novanta, lo psicologo Martin Seligman ha guidato il movimento della Psicologia positiva, che si proponeva di porre lo studio della felicità umana al centro della teoria e delle ricerche nel campo della psicologia, riprendendo peraltro un filone nato negli anni Sessanta. Da allora, una mole impressionante di libri di self-help ha accompagnato una produzione di studi sul tema altrettanto corposa: eppure, dicono i rilevamenti, la nostra felicità non è aumentata. Forse, sostiene Quartz, perché siamo fatti per essere tristi, almeno ogni tanto.

D’altronde non esiste un solo tipo di felicità: nel suo libro The Happiness Mythla filosofa Jennifer Hecht spiega che esistono diversi tipi di contentezza, e spesso più o meno direttamente in conflitto tra loro (pensate alla felicità derivante da un matrimonio stabile, che per forza di cose richiede sacrifici riguardanti altre felicità).

Sad young girl laying on the grass

Oltre a questo, la felicità è per sua natura un concetto sfuggente e capace di dare soddisfazione “stabile”: molte ricerche hanno stabilito che vincere grosse somme di denaro alla lotteria non cambia i livelli di felicità nel lungo termine. Si tratta di ciò che la psicologia ha definito “tapis roulant edonistico”: siamo costantemente attratti da nuovi obiettivi, sempre convinti che il prossimo sarà quello in grado di farci assaggiare la vera felicità. Da un punto di vista evolutivo è utilissimo, perché permette all’essere umano di non sedersi sugli allori e continuare a cercare di migliorarsi.

Per lo stesso motivo, di norma tendiamo a mitizzare la felicità del passato e ad avere alte aspettative nei confronti del futuro; il presente – e il suo livello di soddisfazione – passano fisiologicamente in secondo piano, ma la cosa non è necessariamente negativa: sapere che la contentezza esiste ci aiuta a riconoscerla quando arriva, e a goderne di più e meglio. Finché dura.

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