Cultura | Fotografia
La realtà invisibile di Thomas Struth
Un incontro con il grande fotografo tedesco in occasione dell'apertura di Nature & Politics a Bologna.
GRACE-Follow-On, veduta dal basso / GRACE-Follow-On Bottom View, IABG, Ottobrunn, 2017 Inkjet print, 139,7 x 219,4 cm © Thomas Struth
«Nessuno di noi ha mai visto come è fatto internet, ma tutti ne portiamo in tasca la sua parte finale», queste le parole che Thomas Struth, grande fotografo tedesco, tra i primi allievi di Bernd e Hilla Becher a Düsseldorf, ha usato per presentata la mostra al Mast di Bologna (fino al 22 aprile 2019) che si intitola Nature & Politics ed è a cura di Urs Stahel.
La tecnologia e la scienza sono il soggetto principale di questa serie di immagini. Macchine, dispositivi, cavi intrecciati in un groviglio incomprensibile per i non addetti ai lavori. È come certificare che innovazione e sperimentazione non sono per niente concetti astratti, ma hanno oggi una loro estetica e possono diventare oggetto di fotografie e stampe in grande, grandissimo formato, come vuole quel ramo della fotografia tedesca in grado di competere nel mercato dell’arte contemporanea.
Come tutti i progetti di Thomas Struth, anche Nature & Politics è un lavoro di lungo periodo, durato almeno dieci di anni. Poco, in confronto alla serie sugli ambienti urbani Unconscious Places, nata alla fine degli anni ’70 e che, in qualche modo, continua ancora oggi. «Ho fotografato le città per quasi trent’anni, ho iniziato ai tempi della mia formazione all’Accademia ed ancora oggi mi capita di dedicarmi a questo tema», racconta il fotografo.
Una formazione, quella di Struth, che gravita intorno al fermento artistico degli anni ’70 a Düsseldorf. In un primo momento, Thomas Struth è interessato alla pittura e studia con Gerhard Richter. Poi capisce che gli interessa creare immagini, fotografare, così si avvicina i coniugi Becher ed entra a far parte del gruppo della Scuola di Düsseldorf. Autori coerenti, rigorosi, concettuali che oggi guidano, al rialzo, il mercato della fotografia. Le sue opere sono quotate, in asta, tra i 150.000 e i 200.000 dollari, mentre nel 2017 la sua facciata del Duomo di Milano è andata in asta da Sotheby’s per 500.000 dollari.
Periodi di gestazione molto lunghi, temi diversi, un rapporto incostante con la presenza umana che può esserci come non esserci ma, di sicuro, interviene sempre nel mondo fotografato da Struth. «Ho sempre voluto fotografare situazioni dove convivono il dettaglio e la complessità», spiega il fotografo.
E così nasce il progetto che, nel 1987, lo porta per la prima volta ad esporre in un museo: Unconscious Places, lunghi viali urbani che si estendono in lontananza. Poi, Family Portraits: ritratti di famiglie dove, al contrario, sparisce ogni via di fuga e compaiono le persone, chiuse in stanze da cui sembra sia impossibile uscire, anzi, evadere. Quindi, nel 1998, il progetto New Pictures from Paradise: qui il soggetto è il paesaggio della giungla, quella naturale. Un lavoro che è il preludio alla serie esposta oggi al Mast, dedicata ad un altro tipo di giungla, quella tecnologica, ovvero «il paesaggio dei nostri cervelli contemporanei», come lo definisce Struth.
L’intero lavoro di Thomas Struth è fatto di connessioni, un continuo aggiungere elementi e prendere deviazioni. Quando ci si confronta con la tecnologia, questa capacità di cambiare diventa un obbligo: una materia che si muove più rapidamente della mente di chiunque cerchi di fermarla in una fotografia. Prendiamo la fabbrica degli Shuttle: il tempo di fotografarla e gli Space Shuttle sono già pezzi da museo, archiviati, un progetto superato.
Il lavoro Nature & Politics prende corpo proprio in Florida, a Cape Canaveral, nel 2007, quando il fotografo trascorre otto settimane a due passi dalle rampe di lancio dello Space Shuttle. Ottiene così i permessi per entrare e per fotografare i lavori di manutenzione alle navicelle. Ma a questo punto il lavoro di Struth si connette con qualcosa che sta avvenendo dall’altra parte del mondo. Il 2007, infatti, è l’anno del vertice di Copenaghen sull’ambiente. «Uno di quei summit da cui non è uscito nulla di significativo, ancora una volta la politica non ha trovato un accordo», racconta Struth, «così da una parte osservavo la tecnologia e la scienza svilupparsi a velocità impressionante ed entrare in modo occulto nelle nostre vite, dall’altra la politica era incapace di prendere decisioni. Il progresso era invisibile. Ho deciso così che sarei stato un ripetitore, un’antenna che rendesse visibile al pubblico ciò che stava avvenendo in luoghi di solito inaccessibili».
Naturalmente, queste sono immagini concettuali che non cercano lo scontro con il progresso, non ci sono inchieste e nemmeno una facile critica ambientalista. C’è esattamente ciò che Struth dichiara di voler fare da sempre: rendere visibile ciò che non lo è. Negli anni successivi l’attenzione del fotografo si sposta dallo Space Shuttle alle sale operatorie robotizzate. Qui, decine di cavi, sonde, telecamere e altri strumenti medici vengono inseriti in un corpo umano che, almeno per alcune ore, si consegna alla tecnologia per guarire e tornare a funzionare. Ancora una volta, fotografie piene di elementi incomprensibili per i non addetti ai lavori, ed è proprio l’effetto che vuole ottenere Struth.
«Il nesso tra tutti gli elementi che riempiono queste immagini sfugge alla nostra comprensione», spiega Urs Stahel, che da curatore ha saputo dare un contributo fondamentale al dipanamento di temi così complessi «non ci resta altro che un grande stupore, a volte divertito, di fronte all’alterità straniante di questi ingranaggi».
Non ci sono didascalie né descrizioni accanto alle opere esposte al Mast. «Girare tra le sale di una esposizione è come dialogare direttamente con le opere, come seguire un flusso che ci porta verso le cose che ci interessano di più», spiega l’autore, «inserire quei cartellini accanto ad ogni foto sarebbe come parlare con una persona e guardare da un’altra parte».
Thomas Struth fotografa una mappa della realtà, così come ha fatto nei suoi lavori precedenti sugli ambienti urbani, sulle famiglie, sui musei. Una mappa in continuo movimento, destinata ad arricchirsi di dettagli e a prendere strade non immaginate all’inizio del lavoro. «I miei progetti sono materiale vivente», dice lui. Da una parte cambia la Storia, dall’altra il fotografo fa una continua autocritica sulla sua produzione e, quando un progetto dura dieci, venti o trent’anni, c’è un costante ritornare su ciò che è stato scattato, stampato, esposto. «È un privilegio dell’artista poter riprendere in mano ciò che si è fatto», spiega Thomas Struth, «per un certo periodo, sono stato allievo di Christo, e lui mi ha insegnato molto sull’autocritica. L’ho visto distruggere opere affinché non venissero inserite nel suo catalogo”.
Se dovessimo individuare le regole del mestiere del fotografo tedesco, potremmo elencarne tre, e tutte sono coerenti con la sua formazione nel clima artistico di Düsseldorf: essere organizzati, lavorare molto, avere dubbi su ciò che si è fatto. Insomma, essere consapevoli della responsabilità che ha l’artista nei confronti dello spettatore. «Penso sempre che chiunque osservi una mia opera possa esserne influenzato. Per questo, le immagini che creo sono ricche di dettagli ragionati, mai casuali. Posso tagliare un’immagine in un certo punto perché qualcosa deve stare dentro, mentre qualcos’altro deve stare fuori, non può entrare in quel discorso che sto portando avanti. Il mio è un discorso politico, non c’è dubbio».