Il creatore di Succession torna con un film in cui racconta un quartetto di tech bro ricchi, stupidi e crudeli. Ma non così interessanti.
Cosa spinge un acclamato documentarista a passare alla narrativa – e più nello specifico a girare un musical post apocalittico – dopo aver dedicato anni di lavoro e un dittico di film all’eccidio consumatosi negli anni ’60 in Indonesia? Innanzitutto il fatto che The Act of Killing ha portato Joshua Oppenheimer vicino all’Oscar per il Miglior documentario, ma gli ha reso impossibile tornare in Indonesia, dove oggi è persona non grata.
Quando lo incontro nella hall di un hotel milanese è di ritorno da un allenamento in palestra. Posato, dalla voce calma, quasi un sussurro, Oppenheimer si rivela una persona affascinante come i suoi i film. La motivazione che lo ha spinto a rischiare – artisticamente e personalmente – per girare The End, dice, è quella che anima tutto il suo cinema: il desiderio di raccontare la colpa inconscia di chi è sopravvissuto a spese di altri, con le mani sporche di sangue. Usando questo desiderio, Oppenheimer ha trasformato un aneddoto, l’incontro con un petroliere desideroso di mostrargli il suo bunker privato, nella storia di una famiglia alla fine del mondo. La Madre, il Padre e il Figlio, che cantano e vivono (sopravvivono?) in una miniera di sale mentre il mondo fuori smette di esistere.
ⓢ The End è ispirato a una famiglia estremamente ricca che ha avvicinato ed è poi riuscito a convincere a mostrarle il bunker che stava costruendo. Come si conquista la fiducia di persone che per reddito ed estrazione sociale vivono in una realtà così distante dalla nostra?
The End è nato da un viaggio e da una ricerca che stavo facendo per un possibile documentario. Avevo incontrato un magnate del petrolio che aveva usato la violenza per ottenere le sue concessioni, e stava costruendo un bunker come quello che si vede nel film per la sua famiglia. Non direi di aver mai guadagnato davvero la sua fiducia. Gli piacevo abbastanza però da invitarmi a vedere il bunker, ne era molto orgoglioso. Allo stesso tempo, stava investendo in trattamenti per l’estensione della vita, con l’idea di poter vivere molto più a lungo, magari per sempre. Era aperto su questo, lo rivendicava con orgoglio.
Quando mi ha mostrato il bunker, però, ho iniziato a sentirmi tormentato da una domanda: come avrebbe fatto a convivere con il senso di colpa per la catastrofe da cui stava cercando di fuggire? Ricordo in particolare sua moglie. Quel giorno era emozionatissima perché la sorella aveva appena avuto un bambino. Quando le ho chiesto se l’avrebbe invitata a vedere il bunker, mi ha detto di no, che c’era un limite alle persone che poteva accogliere. Subito dopo si è pentita di averlo detto, come se avesse rivelato qualcosa che non avrebbe dovuto dire. In quel momento avrei voluto chiederle: “Come farete a convivere con la colpa di lasciare indietro le persone a cui volete bene?”. E appena ho formulato la domanda nella mia mente, ho capito che era una questione universale.
I miei genitori hanno più di ottant’anni e so che probabilmente preferirebbero vivere con me o vicino a me piuttosto che in una casa di riposo nella loro città. Forse sarebbe meglio anche per me. O forse no. Ma se non fosse la scelta giusta, o se avessi dei dubbi, la cosa più facile sarebbe semplicemente non parlarne, non affrontare la questione. Ma in questo modo finirei per perderli, non fisicamente, ma nel legame profondo che mi unisce a loro, perché quel silenzio e quella colpa lo corroderebbero.
Quindi, per rispondere alla sua domanda: no, non avevo la fiducia di quella famiglia. Non abbastanza da porre loro certe domande…forse non sarebbero stati nemmeno in grado di rispondere. Il bunker rappresentava una forma materiale della loro negazione, un’illusione. Ma proprio da quella visita ho intravisto la possibilità di raccontare una storia più ampia e universale, sull’amore e su come venga minato quando mentiamo a noi stessi e trasmettiamo quelle bugie anche alle persone che amiamo.
ⓢ Quindi The End è un film su come mentiamo a noi stessi e alle persone che amiamo?
Su scala più ampia è la grande bugia che ci raccontiamo: che le uniche persone a cui siamo legati sono i nostri familiari, che gli amici vengono dopo, e che tutto il resto non ci riguarda. È una menzogna. Perché in realtà siamo tutti interconnessi. E quando mentiamo a noi stessi in questo modo, i primi a essere feriti siamo noi, perché neghiamo la nostra qualità più grande: la compassione.
ⓢ Guardando The End, ho realizzato che è il terzo film che vedo quest’anno su persone ricchissime che fanno parte del cosiddetto 1%, isolate in ville mentre fuori incombe una catastrofe. Penso a titoli molto diversi, come l’horror Companion o la satira Mountainhead. Perché secondo lei oggi tanti narratori sono attratti da questa élite, dal suo modo di agire, parlare, comportarsi e vivere?
Non credo di poter rispondere a questa domanda, perché io non ne sono affascinato.
ⓢ Se non si tratta di fascinazione, allora perché risultano così interessanti?
Una delle sfide più grandi, nel realizzare questo film, è stata proprio riuscire a renderli dei personaggi capaci di suscitare in me una qualche forma di fascinazione. E per riuscirci, ho dovuto cercare – e trovare – qualcosa di universale in loro. Nel film, la famiglia protagonista è senza nome (Tilda Swinton è la Madre, Michael Shannon è il Padre, George McKay è il Figlio, nda) non perché rappresenti l’ultima famiglia umana, ma perché rappresenta ogni famiglia umana. È una famiglia qualsiasi. I personaggi non hanno nomi perché, per me, sono le persone che amo. Mio padre, dopo aver visto George MacKay in The End, quando l’ha incontrato gli ha detto: «Mio Dio, hai davvero studiato mio figlio per interpretare il Figlio».
Ciò che li rende interessanti non è il loro privilegio, ma la loro complessità. Lottano per convincersi di scuse che, in fondo, sanno essere false, ma sono l’unico modo che hanno per continuare a convivere con se stessi. Sono personaggi lacerati interiormente.
Si dice spesso che nei musical i personaggi cantano quando le parole non bastano più a esprimere ciò che provano. Qui, invece, cantano nei momenti di crisi e dubbio, quando la verità della loro situazione riesce a penetrare la bolla in cui vivono. E come naufraghi che si aggrappano a un relitto per non annegare, loro si aggrappano alla melodia, al testo di una canzone, per rimanere a galla, anche se il contrappunto dissonante della musica li trascina verso il fondo, verso un abisso di verità.
Che siano ricchi non è un caso, perché il film parla anche di disuguaglianza, di oligarchia, e di come la famiglia umana si sia tragicamente organizzata come un’oligarchia. Oggi, soprattutto se penso al mio paese d’origine, gli Stati Uniti, vedo una nazione governata dal denaro. Un’oligarchia vera e propria.
ⓢ Guardando il film, ho pensato che, se mai dovessi finire in un bunker, vorrei che fosse come questo. Esteticamente è davvero bellissimo. Mi ha colpito, in particolare, l’artigianalità con cui si ricrea il mondo esterno – come i fiori di carta e le miniature dei luoghi famosi – e quella palette di blu malinconica che avvolge ogni cosa. Come ha trasmesso questa visione alla troupe che lo ho ha costruito?
Di solito mi chiedono: «Cosa porterebbe con sé in un bunker? Un libro? Un film?». E io rispondo sempre: niente. Farei di tutto per non finire in un bunker. Questo è, in fondo, il messaggio del film. Una volta che ci sei dentro – una volta che hai fatto le scelte che ti portano lì – qualsiasi cosa tu porti con te finisce per diventare un tormento. Qualsiasi quadro, a lungo andare, è un dolore per gli occhi e per l’anima. Qualsiasi musica, alla fine, suona come unghie sulla lavagna. Forse l’unica eccezione sono le persone: alcune potrebbero davvero portare sollievo e conforto.
Ma il fatto che lei dica «questo è il bunker in cui vorrei stare» è interessante, perché risponde a una necessità drammatica molto forte. I rituali dei miei personaggi imitano il mondo esterno proprio perché cercano di vivere come se nulla fosse cambiato. E poiché a volte ci riescono, volevo che anche lo spettatore, come loro, potesse dimenticare – almeno per un attimo – dove si trovano. Finché qualcosa non lo ricorda, con brutalità.
Per ottenere questo effetto, dovevamo superare un ostacolo: la claustrofobia. Due ore e mezza in un ambiente sotterraneo, senza finestre, senza luce naturale, rischiavano di risultare soffocanti. Così abbiamo deciso di costruire il bunker dentro una miniera di sale (si tratta della miniera di Petralia Soprana, in provincia di Palermo, nda). L’abbiamo resa bella, avvolta da una luce fredda e bluastra, simile a quella degli esterni. È una luce calmante ma può diventare anche spoglia, tagliente, inquietante. Volevamo che avesse questa doppiezza.
Abbiamo poi riempito lo spazio d’arte che a volte potesse sembrare una finestra su una natura perduta, idealizzata, romantica – che in realtà non è mai esistita davvero. Altre volte, i ritratti diventano vere e proprie accuse: volti delle persone abbandonate, della civiltà distrutta.
ⓢ Nel genere post-apocalittico solitamente si assiste a un ritorno al Medioevo in senso tecnologico: niente elettricità, nessuna tecnologia, la civiltà azzerata. In The End ci sono luce, corrente, ma sembra che la famiglia abbia scelto volontariamente di rinunciare a certe tecnologie: niente telefoni, niente cinema, nemmeno musica. Il figlio scrive un romanzo a mano, con una penna, nemmeno con una macchina da scrivere. Perché questa scelta?
Credo che i contenuti digitali – l’archivio del web, dei computer – finirebbero per diventare una forma di tortura. Anche i film lo sarebbero. Guardarli significherebbe vedere le immagini in movimento di persone che sai essere scomparse. Non sarebbe un conforto, ma un tormento. C’era una scena, poi tagliata dalla sceneggiatura, in cui il padre, in un momento di disperazione, guarda qualcosa al computer. Sta cercando pornografia, ma quello che vede non è erotico: sono ombre dei morti. Uno strazio, non un sollievo.
E vorrei dire qualcosa anche su quello che lei ha chiamato ritorno al Medioevo, perché trovo molto bella questa espressione. Il presidente americano ha detto che vuole “rendere di nuovo grande l’America”. E con questo intende un ritorno a un’America degli anni ’50: l’industria pesante alimentata a carbone, i ruoli di genere rigidi. La chiama età dell’oro. Ma se guardiamo a quell’epoca – e anche al nostro presente – non è forse sempre stata un’epoca buia?
I musical della cosiddetta golden age sono nati durante la Grande Depressione, poi c’è stata la Seconda guerra mondiale, l’Olocausto, la segregazione razziale negli Stati Uniti e infine l’invenzione di una tecnologia che, per la prima volta nella storia, ci ha dato la possibilità di annientarci con la sola pressione di un pulsante: la bomba nucleare. Quella che chiamiamo età dell’oro è sempre stata un’epoca oscura. E quindi, creare un musical post-apocalittico che sembra in continuità con il nostro presente non significa ambientarlo in un futuro immaginario: significa ambientarlo in questa nostra età oscura.
ⓢ Mi tolga un’ultima curiosità: è mai riuscito a mostrare il film al magnate alla famiglia che le ha mostrato il bunker?
No, non ho mostrato loro il film, dato che è diventato qualcosa che va ben oltre quella famiglia, che avevo scelto per la sua storia violenta. Ho parlato pubblicamente e più volte della loro violenza, senza mai fare i loro nomi. Mostrare loro il film, alla luce di tutto quello che ho detto su di loro, metterebbe in pericolo le persone che mi hanno permesso di entrare in contatto con quella realtà.