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Terraforma: un festival musicale ma anche un’utopia

Intervista a Lawrence Kumpf, autore di Organic Music Societies, un libro che racconta l'utopia realizzata del musicista Don Cherry che ispira l'edizione di quest'anno dell'evento di Villa Arconati

di Federico Sardo

Dal 9 all’11 giugno si terrà, come sempre nel bosco di Villa Arconati, alle porte di Milano, il festival Terraforma, che dal 2014 rappresenta una delle realtà più interessanti d’Italia e non solo, con la sua proposta di musica, lecture e workshop con grande attenzione alla sostenibilità, che Rivista Studio ha sempre seguito con attenzione. Anche quest’anno l’offerta musicale, incentrata su sperimentazione e psichedelia, e vicina all’idea di un festival anche molto comunitario, vede in line-up tanti nomi di rilievo, tra i quali per brevità citiamo Actress, Hudson Mohawke, Josey Rebelle, Master Musicians of Jajouka, Shackleton, Babau, Still, Donato Dozzy, Salò, Nkisi, Beatrice Dillon, Tikiman e Scion. Ma una caratteristica importante del festival è quella di proporre novità interessanti anche tra i nomi meno noti, insomma una curatela di cui ci si può fidare.

Tra gli ospiti extra musicali di quest’anno ci sarà anche Lawrence Kumpf, l’anima dietro alla casa editrice, etichetta e spazio indipendente newyorkese Blank Forms. Per Blank Forms, Kumpf insieme a Naima Karlsson, anche lei presente al festival, figlia di Neneh Cherry, ha curato nel 2021 un libro formidabile, cui ha fatto seguito anche una mostra: Organic Music Societies racconta il periodo di grande creatività e di grande musica, ma non solo, che nasce dal trasferimento di Don Cherry in Svezia e dal suo rapporto con l’artista Moki Karlsson. Il trombettista, dopo essersi fatto notare in America nel jazz di avanguardia, alla fine degli anni Sessanta lasciò la madrepatria per l’Europa, e qui sviluppò una vita comunitaria con Moki fatta di arte multimediale, musiche sempre più lontane dal jazz comunemente inteso e sempre più ibridate con quella che ancora non si chiamava world music, realizzando dischi straordinari (a partire da quello del 1973 intitolato proprio Organic Music Society), dialogando con musiche indiane, brasiliane, africane, con il minimalismo e con ogni sorta di avanguardia, provando a immaginare un mondo diverso anche nelle pratiche di vita quotidiana e nel lavoro costante di collaborazione con Moki, artista visiva, scenografa, stilista, musicista, e in definitiva portatrice di una visione a 360 gradi fondamentale nello sviluppo della Organic Music Society, una storia di avanguardia non ancora sufficientemente nota al grande pubblico quanto altre esperienze coeve.

Non solo Lawrence Kumpf e Naima Karlsson presenteranno il libro, il progetto e questa storia al festival, ma sono tanti i rimandi e le idee che questa edizione di Terraforma prospetta di avere in comune con quella realtà, di cui abbiamo parlato proprio con Kumpf.

Come sei entrato in contatto con la figura di Don Cherry? Immagino prima con la musica e solo successivamente anche con tutta l’iconografia e i valori correlati alla Organic Music Society.
Probabilmente sono entrato in contatto con la musica di Don Cherry per la prima volta al liceo o all’università, mentre sviluppavo una curiosità per il jazz e la musica creativa, e probabilmente l’ho sentito per la prima volta attraverso le registrazioni di Ornette Coleman. Non ricordo un momento specifico in cui l’ho identificato come una sorta di band leader o compositore, ma quando mi sono imbattuto in Organic Music Society e in alcuni dei lavori che stava facendo in Svezia negli anni Settanta, sono rimasto molto incuriosito da quello che sembrava una sorta di cambio di direzione piuttosto sostanziale. Ho lavorato in Scandinavia, un paio di anni prima di realizzare questo progetto, sul lavoro di Henning Christiansen, un compositore e artista visivo danese, e avevo anche lavorato a stretto contatto con Catherine Christer Hennix, che è un’artista svedese con cui ho realizzato degli eventi, ed è stato più o meno facendo ricerche su Catherine che mi sono imbattuto in un paio di figure interessanti. Una è Hans Isgren, che è un suonatore di sarangi che suona su Organic Music Society, e poi Keith e Rita Knox: lui era un giornalista e Rita era una fotografa, ed entrambi erano una specie di soci di Catherine negli anni Settanta, e sono le uniche persone che hanno documentato il suo lavoro. Cercando di rintracciarli l’unica cosa che riuscivo a trovare su di loro era il loro coinvolgimento anche nel lavoro di Don Cherry.

Ovviamente anche Catherine l’aveva conosciuto, sia in Svezia che a New York, e così è stato attraverso questa ricerca che mi sono aperto alle attività di Don e Moki Cherry e al loro lavoro con curatori come Pontus Hultén, e quindi alle connessioni con gente tipo i Taj Mahal Travellers, e poi la musica dell’India settentrionale: Pandit Pran Nath, Zia Mohiuddin Dagar e Ram Nayaran, il suonatore di serangi con cui Hans Isgren ha studiato. È attraverso la ricerca su questi personaggi un po’ laterali che sono entrato in contatto con tutta quella storia, che in realtà non è così nota negli Stati Uniti. Un sacco di gente pensa a Don Cherry solo per i dischi Blue Note, e lo considerano una sorta di turnista per tutti questi grandi artisti della new thing e del free jazz, che poi va in Europa e in un certo senso scompare… Attraverso questo progetto ho avuto l’opportunità di esplorare quel periodo europeo e ricollegarlo alle sue pratiche precedenti, e contestualizzarlo in un dialogo con tutte queste altre cose che stavano accadendo contemporaneamente, e di pensare al lavoro di Moki in relazione a tendenze visive e musicali più ampie, e a modi alternativi di vivere e di presentare la musica.

Al di là della musica e dell’estetica c’erano anche una forte componente di attivismo ambientalista e un’idea comunitaria pan-etnica: idee tuttora molto attuali, forse anche in anticipo sui tempi.
Penso che fosse in tutto e per tutto una metodologia, un modo di pensare, studiare e presentare la musica in qualche modo antitetico ai mezzi di produzione capitalista che hanno inevitabilmente teso a dominare la produzione di musica, e continuano a farlo anche oggi. Per molti versi questa pratica è stata una risposta alla condizione in cui gli artisti creativi, i musicisti jazz, i musicisti in America in generale, dovevano presentare il loro lavoro. Una delle forme d’arte più avanzate del ventesimo secolo è stata essenzialmente costretta a essere presentata nei club e nei bar di proprietà della mafia a New York, e in condizioni davvero pessime. In questo senso mi piace pensare invece a qualcuno come Pontus Hultén, che è stato uno dei primi sostenitori del lavoro collettivo di Moki e Don, attraverso quella sorta di esibizione nella Cupola Geodetica al Moderna Museet di Stoccolma: in quel particolare momento quel tipo di spazi semi-utopici hanno potuto rappresentare un’alternativa per come presentare e concepire le espressioni artistiche.

Non che si possa davvero sfuggire all’industria capitalista, a quell’aspetto dell’industria culturale, ma ci sono spazi paralleli che vivono simultaneamente, e che presentano un’alternativa, che contribuiscono a immaginare un modo alternativo di consumare e interagire con la musica. Il lavoro di Don e Moki non riguardava soltanto l’esibizione e l’ascolto, ma anche un discorso di educazione del pubblico, della band e dei musicisti stessi. La loro è stata una ricerca durata tutta la vita intorno allo studio della musica, volta a imparare, accogliere altre culture, trovare modi per comunicare al di fuori del linguaggio, con persone diverse. Penso che in sostanza sia stato questo il centro della loro pratica.

Un capitolo del libro si intitola “The revolution is inside”: quello della Organic Music Society era un impegno politico non fatto di slogan ma allo stesso tempo molto presente, nella vita, nelle scelte, nel distanziarsi dal mondo del jazz e dagli Stati Uniti.
In quel piccolo saggio volevo provare a trasmettere proprio questo. Tanti pensano che Don Cherry non fosse politico, che fosse una specie di hippy e non avesse una forte agenda politica, penso lo dicano pensando ad alcuni dei movimenti politici che stavano animando gli Stati Uniti nello stesso momento, come il movimento free jazz e le pantere nere, Malcolm X… Quella citazione viene da una conversazione che stava avendo a Dartmouth con i suoi studenti, in cui parlava di Malcolm X, delle pantere nere, e esprimeva loro solidarietà. Parlava di Kenneth Allen Gibson, sindaco nero di Newark nel New Jersey, di cui Amiri Baraka era un forte sostenitore, e della sua campagna politica. Quindi volevo mostrare e spiegare che quello era un gesto politico per Don Cherry, e sebbene non fosse apertamente coinvolto nell’organizzazione in modi in cui lo erano altri artisti, c’è una sorta di corrente sotterranea nella sua pratica, che si ispira all’idea di Malcolm X per cui “la rivoluzione deve iniziare a casa”. Ci sono molti modi in cui Don e Moki, insieme, hanno vissuto questo concetto, ed è anche importante capire che Don si trovava di fronte a tutto mentre stava anche lottando con una dipendenza, tentando di ripulirsi e di creare una struttura nella sua vita quotidiana che gli permettesse di essere creativo, di fare musica, di essere lucido. E anche questa è una lotta. È quel tipo di lavoro che inizia all’interno, e poi può essere ampliato e condiviso, e può germogliare verso l’esterno, e creare una comunità. Che sia solo la comunità iniziale di lui e Moki che lavorano insieme, o l’ensemble con cui sta suonando, o nel lavoro con un gruppo di bambini. Magari non è un gesto politico propriamente detto, ma fa parte del discorso politico che stava accadendo alla fine degli anni Sessanta. Ha a che fare con i diritti civili, ha a che fare con l’autonomia politica, e lui fa parte di quella conversazione.

Spesso si parla di Don Cherry ma il vostro libro è attento a sottolineare anche l’importanza di Moki.
Mi piace pensare alla sua vita con Moki come una vera collaborazione, e mettere queste pratiche di vita a 360 gradi nel contesto di altri tipi di pratiche di arte ambientale. Inoltre finora nessuno ne ha mai parlato davvero così, è sempre una cosa tipo “Don Cherry è un grande musicista e Moki ha realizzato dei disegni per le copertine dei suoi album, e ha disegnato i suoi vestiti e qualche volta ha suonato con lui”, ma penso che lo scambio sia molto più ricco e profondo di così, e che siano state le condizioni storiche a emarginare Moki come artista visiva e designer. Non aveva davvero lo spazio per presentare il suo lavoro nel contesto che aveva sempre desiderato, e penso che abbia anche rinunciato a molto per stare con Don e supportarlo; ha continuato a lavorare essenzialmente in un ambiente privato, la sala da concerto e la casa, decorandole, facendo vestiti, realizzando questi arazzi che sono stati condivisi all’interno della loro piccola comunità insulare di persone. Ma alla fine quello è lo spazio in cui viene comunque realizzata molta arte, quindi penso che ora possiamo capire meglio quanto significativa sia stata la sua produzione artistica, nonostante la sua circolazione limitata.

Che cosa c’entra tutto questo con il Terraforma 2023?
Collaborando con loro ho suggerito alcuni artisti, e loro volevano assolutamente coinvolgere Naima, che ha curato il libro e la mostra insieme a me, inoltre con Blank Forms abbiamo pubblicato il suo disco con Kenichi Iwasa a nome Exotic Sin; poi so che stanno lavorando con Bengt Carling, l’architetto originale che ha costruito la cupola geodetica al Moderna Museet, che verrà a ricostruirla per il festival, e Naima e Kenichi suoneranno lì e poi sempre lì faremo il nostro talk. Inoltre ci sono molti altri artisti che conosciamo e con cui abbiamo lavorato che fanno parte del festival, hanno una sorta di “affinità spirituale” con il tipo di pratica di Don e Moki: suoneranno anche gli Still House Plants che hanno pubblicato anche loro per Blank Forms, e so che Beatrice Dillon si esibirà con Kuljit Bhamra, un suonatore di tabla con cui ha collaborato un bel po’…

Parliamo del concetto di attualità riferito a pratiche artistiche del passato. Come dicevamo molti aspetti sono ancora oggi validissimi, ed è importante per esempio che io e te da addetti ai lavori ne parliamo, ma chi fa arte oggi dovrebbe rifarsi a esperienze di quel tipo o tirare una riga? Tenerle presente come ispirazione o fare tabula rasa? Me lo chiedo spesso.
Come si dice, se non capisci il passato sei condannato a ripeterlo… Penso che lo spirito del progetto sia tale da esprimere un’apertura a un tipo di studio, di pratica e di impegno verso una varietà di mondi e punti di vista diversi, vale a dire che i parametri dentro i quali penso la Organic Music Society sono talmente ampi che si possono avere un’infinità di variazioni e iterazioni di essi. Penso che il suo scopo fosse quello di un’apertura radicale, quindi non si tratta solo di prendere un arazzo e metterlo su un palco per creare un ambiente: questo è solo un aspetto, e forse non è così interessante ricrearlo oggi, ma penso che usare quell’esperienza come una sorta di metodologia per pensare attraverso la differenza, allora sì, può avere molto senso anche oggi. È molto importante capire come ci si può avvicinare a un’altra cultura musicale e farlo con rispetto, e penso che sia quanto mai importante oggi riflettere sulle idee di appropriazione, su chi ha la proprietà su qualcosa, chi non ha la proprietà… E credo che questo tipo di pratica possa dire molto a questo proposito, oggi.

L’mmagine fa parte dei visual per l’edizione 2023 di Terraforma, To your scattered bodies di Jim C. Nedd