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La parola dell’anno per l’Oxford English Dictionary è rage bait Si traduce come "esca per la rabbia" e descrive quei contenuti online il cui scopo è quello di farci incazzare e quindi interagire.

Teresa Ciabatti e la voglia di sparire

Tornata con un nuovo libro, ci ha parlato di Facebook, rapimenti, mitomania, e dell'intervista dei suoi sogni.

10 Ottobre 2018

L’unico anno in cui posso dire di aver seguito il Premio Strega con partecipazione è il 2017, quello in cui tutti davano per vincitrice Teresa Ciabatti. Mesi prima che venissi a sapere che la scrittrice in questione aveva co-sceneggiato Tre metri sopra il cielo e Ho voglia di te (entrambi tratti dai libri di Federico Moccia), mi era capitato tra le mani il suo romanzo La più amata (Mondadori), con cui partecipava allo Strega. I detrattori ne parlavano come di un prodotto frivolo, “non letterario”, accusando l’autrice di mitomania, autocompiacimento e autocommiserazione (tutto insieme, sì), nonché di una scrittura sciatta e patetica. Per gli ammiratori si trattò, invece, di una rivelazione. La più amata è un’autofiction che inganna il lettore assumendo la forma di un’anamnesi a briglia sciolta (in copertina, però, c’è scritto romanzo). È uno sfogo esemplare sul tema “aspettative deluse”, la versione pop dei grandi lamentosi della letteratura, da Thomas Bernhard a Heinrich Böll. Infatti non ha vinto: al Premio è arrivato secondo. Teresa Ciabatti dice che il «fallimento dello Strega» (così ha rinominato l’esperienza) è stato indispensabile per scrivere il suo nuovo libro, Matrigna (Solferino) in libreria dall’11 ottobre.

 Quanto ci hai messo a scrivere Matrigna?

8 mesi. C’è una tipologia di persone, di cui io faccio parte, a cui il fallimento fa benissimo, funziona da spinta. Considera che, quando tutti dicevano che avrei vinto, io ci credevo. Già pensavo “che mi metto?”.  E immaginavo quel momento. Alla fine, dentro di me, sul quel palco ci sono salita 4 o 5 volte. L’immaginazione consuma, è una forma di esperienza. È questa la forza dei mitomani emarginati. Nella mia vita non ho mai vissuto niente da protagonista, niente di fondamentale o rilevante, eroico o significativo: ma dentro di me è successo di tutto. Credo sia una forza incredibile, enorme.

 Non hai pensato che forse il tuo libro non era abbastanza politically correct per vincere?

Più che altro ho pensato che i miei libri precedenti avevano venduto 2 copie, non li aveva letti nessuno … sarei dovuta arrivare a quel punto con più autorevolezza. Sai, se lo fa Walter Siti è un conto: ma io chi cazzo ero? La gente pensava che La più amata fosse un diario improvvisato. A un certo punto ho dovuto cancellare il mio profilo Facebook: mi taggavano, mi insultavano. Non era questione di ricevere pareri positivi o negativi sul libro, il problema era l’aggressività e la moltitudine. Ma ero io ad aver usato il mio profilo così, creandomi un alter ego, giocando con questa ambiguità, usando la voce narrante del romanzo nei miei post. Tutto si era mescolato, e non posso lamentarmi perché sono stata io stessa a voler mischiare la realtà con la finzione.

ⓢ Infatti il gioco geniale del romanzo era proprio questa ambiguità: fingeva di essere un’autobiografia spietata e verissima, anche nel modo in cui era scritto. Invece c’era un estremo controllo, e tanta invenzione.

Sì, era proprio quello che mi interessava fare, dal punto di vista letterario. C’è molta più autobiografia in Matrigna, che racconta una vita che non è la mia (è la storia di una sorella che assiste all’improvvisa, misteriosa scomparsa del fratellino, un evento che traumatizza tutta la famiglia, in particolare la madre, ndr), che in La più amata, in cui la voce narrante, che si chiama come me e condivide con me molte caratteristiche biografiche, è in realtà diversa e lontanissima: si esprime per iperboli, ha una visione costantemente alterata, deformata. È una voce infantile, narcisista, che cita sbrigativamente la morte dei genitori ma torna continuamente a parlare di sé, a ricordare, rimpiangere e descrivere con tantissimo amore i giocattoli costosi di quando era benestante e bambina.

ⓢ È superficiale, di un egoismo disumano, che in certi lettori ha scatenato un senso di empatia fortissimo (eccomi) e in altri addirittura rabbia e disgusto.

A me interessa tantissimo smuovere, procurare fastidio. Penso sia un buon obiettivo. Volevo proprio che sembrasse uno sfogo, il diario di una stronza … mi interessava creare uno spaesamento del genere. Matrigna è diverso, la voce narrante è neutra, non è affatto antipatica.

 Matrigna. È un titolo è un po’ strano.

È il primo titolo a cui ho pensato e l’ho trovato subito giusto, ma non è stato facile farlo accettare. Volevo un titolo respingente. Che poi qui “matrigna” è da considerare nella sua accezione negativa: non come “nuova moglie del padre”, ma nel senso di “cattiva madre”, anche interiore.

 Non è la prima volta che esplori le oscurità legate alla figura materna. Penso a La più amata, in cui la madre depressa della protagonista sparisce per un anno (il padre le somministra la cura del sonno all’insaputa della figlia) ma anche a un altro tuo libro che ho scoperto da poco. Ho visto un film di Carlo Virzì del 2006 che mi è piaciuto tantissimo, L’estate del mio primo bacio (ispirato al romanzo Adelmo torna da me, pubblicato nel 2002 da Einaudi).

No! Mi dissocio! Mi dissocio da quel libro!

Ma come, non ti piace più?

Quel libro fa schifo, non è neanche un libro … devo dire che ho una certa durata di gradimento rispetto alle cose che faccio: una volta che una cosa è chiusa non vado mai a rileggerla, sto male, mi vergogno.

Mi ricorda una cosa che avevo letto nei diari di Virginia Woolf. A un certo punto si chiedeva, piena di speranza: «Sta forse arrivando il momento in cui potrò sopportare di leggere quello che ho scritto senza arrossire, rabbrividire e provare il desiderio di nascondermi?».

E infatti la vera maturità per uno scrittore è riuscire ad accettare la propria inadeguatezza. Io sono ancora nella fase immatura, di negazione totale.

 Quanti anni avevi quando hai scritto Adelmo torna da me?

Non lo so, 25, 26. Guarda, l’unica cosa che mi interessa, o meglio, che trovo interessante a livello psicanalitico, è che in quel romanzo c’era un livello di rimozione incredibile. È il ricordo di un’infanzia stupenda, le vacanze, la piscina… ci sono voluti 20 anni per scavare in quel ricordo e dire che sotto la piscina c’era un bunker, che è quello che racconto in La più amata.

 Sia lì che in La più amata, come anche in Matrigna, la voce narrante è quella di una figlia.

Sì, c’è sempre una figlia e ci sono sempre i genitori, anche se mi sono resa conto che per me è difficilissimo riuscire a raccontare madre e padre contemporaneamente. Quando ci provo, a un certo punto uno dei due sparisce, senza motivo, e rimane sullo sfondo. E infatti c’è un altro mio libro non riuscito, I giorni felici, in cui la madre è praticamente un pezzo d’arredamento, un personaggio che non trova il suo collocamento. Credo sia perché tendo a raccontare rapporti molto sbilanciati.

 I genitori disfunzionali funzionano così. Forse Tolstoj non sarebbe d’accordo, ma le famiglie infelici presentano schemi ricorrenti … uno di questi è l’incapacità dei genitori di raggiungere un equilibrio. Succede sempre che uno dei due prevarica sull’altro.

Quello che mi interessa è proprio questo: la famiglia è il primo luogo dove si fa esperienza del potere.

 In Matrigna compaiono anche altre forme di potere. La storia inizia in un’era in cui la televisione ha un ruolo preponderante – penso alla madre, che si ritrova al centro dell’attenzione mediatica per via del figlio scomparso – e finisce al tempo presente, in cui lo stesso personaggio cerca di conservare la sua “fama” attraverso il profilo Facebook, continuando a parlare di una tragedia che ormai risale a molti anni prima. Come ti è venuto in mente di raccontare la storia di un bambino scomparso?

Come madre è una cosa a cui penso. Mi è capitato di perdere per qualche momento mia figlia e provare un assaggio di quella sensazione. Ma soprattutto mi affascina, quando seguo questi casi, notare come le persone reagiscono. Molte volte ho visto l’esigenza di continuare a condividere, tenersi al centro, anche per non rimanere soli e quindi voler essere ricordati e amati per questo dolore anche decenni dopo il fatto. E poi perché ho sempre ragionato sul ritorno. Da ragazzina il mio sogno da mitomane era di sparire, essere Emanuela Orlandi, Cesare Casella. Ero giovane, non contemplavo la possibilità della morte: quindi era previsto un ritorno. E tornavo, e tutti tornavano con me: ricompariva Emanuela Orlandi, Alfredino usciva dal pozzo, e io fantasticavo tutti quei ritorni, vivendoli al posto loro. Forse questo libro rappresenta una fase un po’ più matura della fantasia di ritorno.

Emanuela Orlandi, scomparsa il 22 giugno 1983 a Roma

Per esempio: uno dei miei sogni è intervistare Cesare Casella. È stato sequestrato per due anni. Uno pensa che vivere un’esperienza così estrema renda saggi, faccia capire qualcosa di molto importante. Invece, dopo il suo ritorno, Casella ha iniziato a comportarsi da Vip: non riusciva più a stare lontano dalle telecamere. Quando iniziarono a girare una fiction sulla sua vicenda e presero un attore per impersonarlo, lui, che avrebbe voluto interpretarsi da solo, andò tutti i giorni sul set a rompere i coglioni, finché dovettero emettere un decreto di allontanamento. Vorrei raccontare la sua storia con le sue parole. È un mio sogno da anni.

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