Il giornalista ci parla del suo nuovo libro, Bestiario artico, in cui usa gli animali del Polo Nord per collegare i diari di esplorazione del XVI secolo con le trasformazioni ambientali, geopolitiche e culturali del presente.
Ted Chiang è l’eccezione che conferma la regola secondo cui i grandi autori di genere non raggiungono mai il pubblico generalista. Sono passati più di vent’anni da quando l’antologia Storie della tua vita gli ha fatto fare il salto da scrittore di racconti brevi fantascientifici ad autore di fama internazionale. A vent’anni da quell’antologia che gli ha cambiato la carriera, a quasi un decennio da quando Arrival di Denis Villeneuve ha adattato uno suo racconto in un film memorabile, Chiang è ancora un’enigma letterario. Uno scrittore che ragiona secondo le regole della fisica anche di fronte a quesiti esistenziali come il libero arbitrio, la spiritualità e l’iniquità sociale. Un intervistato che si prende un minuto intero per ponderare su una domanda in apparenza semplicissima, sviscerandone un risvolto inaspettato. A Nizza Monferrato, alla manifestazione Libri in Nizza dov’è stato invitato, ho provato a sbrogliare con lui il mistero del suo successo, scoprendo che dietro i suoi socratici “so di non sapere” si nasconde una visione lucidissima dell’arte presente, assediata dalle logiche capitalistiche e dall’AI.
ⓢ È insolito vedere uno scrittore di fantascienza in un festival letterario generalista, almeno qui in Italia. Di solito ci sono festival di genere e festival letterari “seri”, nettamente separati anche nel bacino di ospiti che interpellano. Come ha fatto la sua fantascienza a raggiungere il grande pubblico?
Anche per me, da autore, raggiungere il pubblico di massa è stata una sorpresa totale. Non avrei mai immaginato che i miei scritti potessero essere letti da persone al di fuori di quanti sono interessati alla fantascienza. Anzi, per gran parte della mia carriera ho dato per scontata questa realtà, senza mai metterla in discussione. Considera anche il fatto che non solo scrivo fantascienza, ma la mia produzione si basa quasi interamente su racconti brevi e saggi. La forma breve nella sua scarsa appetibilità è uno dei pochi tratti che unisce il pubblico generalista e quello di nicchia. Sin dal principio ho sempre saputo che il numero di lettori di racconti di fantascienza è piuttosto piccolo e che mi rivolgevo a un sottoinsieme ancora più ristretto. L’avevo capito e accettato ancor prima di proporre i miei primi lavori per la pubblicazione.
ⓢ Allora come è arrivato il successo mainstream?
Credo che a fare la differenza siano stati i consigli di alcuni amici che mi dissero che avrei dovuto provare a raggiungere un pubblico più vasto. Questo, però, avrebbe richiesto un nuovo agente, qualcuno disposto a propormi a un editore generalista. Da parte mia ero molto scettico, non credevo che questa mossa potesse funzionare. All’epoca c’era un’altra autrice che aveva fatto un percorso simile: Kelly Link. Tuttavia mi sembrava che il mio lavoro fosse completamente diverso dal suo e che ci fossero poche speranze di seguire la stessa strada. Alla fine però mi sono deciso a provare a fare questo salto. Non è stato immediato: ho parlato con alcuni agenti che mi hanno detto di no. Mi dicevano quello che pensavo anche io: «I tuoi scritti non raggiungeranno mai un pubblico generalista, non posso venderti a quel tipo di casa editrice». Poi, però, ho trovato l‘agente giusto: uno che si è detto fiducioso di potercela fare. Gli ho detto: «Ok, proviamoci». Il cambiamento nella mia carriera è in gran parte merito suo. È successo circa dieci anni fa. Ma il mio agente ha avuto successo, i miei libri sono stati pubblicati da un editore generalista e hanno raggiunto un pubblico più ampio. Si è scoperto che piacevano, in una misura che credo abbia sorpreso tutti, compresi il mio agente e il mio editore. Penso che all’epoca sperassero in un buon risultato, ma non si aspettassero un successo così grande. È stata una sorpresa per chiunque.
ⓢ In Italia, l’antologia Storie della tua vita e altri racconti è alla terza riedizione con tre case editrici diverse. L’incontro a Nizza è incentrato su questo titolo, che è ancora il suo lavoro di riferimento. La sua percezione di questo lavoro è cambiata nel tempo? L’ha mai riletto?
Non credo che la mia percezione dell’antologia sia cambiata molto da quando l’ho scritta, no. Come dicevo prima, continuo a rimanere molto sorpreso di come questa antologia che alla sua prima pubblicazione aveva un pubblico minuscolo sia stata poi letta da moltissime persone in tutto il mondo. La considero un esempio del fatto che nessuno può prevedere se un libro avrà successo con il pubblico, nemmeno tra addetti ai lavori. Non è una competenza che si può acquisire; è semplicemente qualcosa che accade, ed è una sorpresa.
ⓢ L’adattamento cinematografico del racconto “Storia della tua vita” (da cui prende il nome la raccolta) nel film Arrival di Denis Villeneuve l’ha sicuramente aiutata a raggiungere un pubblico ancora più vasto. È soddisfatto della scelta di quel racconto specifico? Se Hollywood l’avesse chiamata chiedendole quale storia adattare, ne avrebbe scelta un’altra?
Se l’esperienza con Arrival mi ha insegnato qualcosa, è che non sono un buon giudice di cosa possa funzionare come adattamento. Se me lo avessero chiesto prima, avrei detto che era una scelta terribile, un racconto davvero infilmabile, dato che si svolge quasi interamente nella testa di una donna. Molte persone la pensavano come me all’epoca, non mancavano perplessità in merito. Invece Eric Heisserer, lo sceneggiatore, ha avuto la visione giusta, ha capito come adattarlo quando nessun altro ci riusciva. Io di certo non avrei potuto prevederlo né tantomeno farlo al posto suo. Quindi, se qualcuno mi chiedesse quale altra mia storia sarebbe una buona scelta, risponderei: «Chiaramente non lo so, visto che mi sarei sbagliato su questa!». Sicuramente se un qualsiasi altro mio racconto venisse adattato, ne sarei felice.
ⓢ Ha ricevuto altre offerte dopo Arrival?
Sì, ci sono state molte altre offerte e molti tentativi, a volte per il cinema, in anni recenti per la televisione. Ora che l’industria è cambiata, sono stato spesso contattato per le serie televisive. Molti progetti sono andati avanti anche parecchio, a volte sembrava che fossero sul punto di realizzarsi, ma chi conosce questo mondo sa che è nella natura di queste cose che, il più delle volte, non accadano. È comune che avanzino molto e poi, all’improvviso, svaniscano.
ⓢ Nei suoi racconti più celebri esplora il libero arbitrio e la coscienza individuale. Sono temi che solitamente in letteratura affrontati attraverso la lente della teologia o della filosofia. Lei lo fa con la “fantascienza dura”, ricorrendo spesso ai suoi studi in fisica. Come si spiega questo suo approccio?
Ci sono molti modi per esplorare questioni come il libero arbitrio. Penso che la filosofia e la teologia siano ottimi strumenti per farlo e la fantascienza stessa può certamente usarli, oltre alla saggistica o alla letteratura “tradizionale”. Parlando per me, come persona ho un orientamento molto scientifico nel modo di pensare e di vivere. Da giovane il mio desiderio era quello di diventare un fisico. La mia prospettiva individuale è quindi stata sin dalla gioventù modellata dalla fisica e dalla scienza in generale. Anche da adulto e da scrittore mi risulta difficile sfuggire completamente a questo modo di guardare il mondo.
ⓢ Nel suo racconto “It’s 2059, and the Rich Kids are Still Winning” immagina un mondo in cui la tecnologia cambia tutto, tranne le disuguaglianze. Questo mi fa pensare alla situazione degli scrittori: è sempre più difficile vivere di sola scrittura, sembra quasi un hobby per ricchi o per chi ha un secondo lavoro. Cosa ne pensa di questo problema sempre più comune?
È un problema che esiste da molto tempo, non è nuovo, ma è anche vero che probabilmente oggi è peggio che mai. Credo che la vita della maggior parte delle persone sia diventata più difficile a causa della crescente dominanza del capitalismo. Non voglio dire che la condizione degli artisti sia necessariamente peggiore o più importante di quella di chiunque altro, ma c’è un problema specifico: gli artisti sono le persone che creano la cultura e il capitalismo sta distruggendo la capacità della nostra società di creare cultura. Il capitalismo cerca di sostituire la creazione di cultura da parte degli artisti con la creazione di “prodotti”, di pubblicità, di cose che possono essere semplicemente vendute. Sotto il capitalismo, l’arte viene trattata come se non fosse diversa dall’acqua zuccherata, come una bibita. Lo vediamo in ogni settore: editoria, cinema, musica. Il capitalismo sta cercando di trasformarli in fabbriche di bibite. È un problema serio, e non so cosa si possa fare al riguardo.
ⓢ Secondo molti l’intelligenza artificiale ha peggiorato la situazione. Nel suo saggio del 2024 sull’argomento “Why A.I. Isn’t Going to Make Art” si mostra scettico sulla possibilità che l’AI possa creare arte. La sua opinione è cambiata? Glielo chiedo dato che nel campo dell’intelligenza artificiale le innovazioni avvengono molto repentinamente.
Vorrei chiarire una cosa: il titolo di quel saggio non l’ho scelto io. L’argomento che sostengo in quel testo non è tanto se l’AI possa creare arte, quanto se possa essere uno strumento utile per gli artisti. La mia opinione non è cambiata: l’intelligenza artificiale non può essere utile all’artista. L’argomentazione che ho sviluppato è indipendente da qualsiasi specifico progresso tecnico. Non si tratta di stabilire se gli strumenti siano “abbastanza buoni”. Riguarda piuttosto il fatto che questi strumenti sono pubblicizzati come qualcosa in cui una persona fornisce un input molto piccolo e lo strumento produce un output molto grande. Se un software viene presentato così, non mi interessa come funzioni. Ritengo che questo processo fondamentale sia incompatibile con l’arte. L’arte richiede grandi input. Creare arte richiede di prendere moltissime decisioni. Più di recente, ho detto che l’arte è una forma concentrata d‘intenzione. Ciò che questi programmi software fanno è diluire l’intenzione. Quindi non è una questione di quanto sia avanzato lo strumento. Se l’arte è intenzione concentrata, qualsiasi software che la diluisce è incompatibile con l’arte, indipendentemente dalla tecnologia sottostante.
ⓢ Vorrei sfidarla su questo punto con un esempio. La scrittrice giapponese Rie Kudan ha vinto il prestigioso premio Akutagawa con il romanzo Tokyo Sympathy Tower, dichiarando di averlo scritto con l’aiuto dell’AI, usandola come un assistente che ha contribuito per circa il 5-10 per cento del testo. Se l’intelligenza artificiale non genera il testo da un singolo prompt ma viene usata come strumento tecnologico, questo cambia la sua prospettiva?
Non conosco il libro nello specifico, ma se ci atteniamo all’idea della dimensione degli input e degli output, il discorso è questo: un’autrice che scrive un libro da sola potrebbe scrivere, diciamo, centomila parole. Se questo programma ne ha generate diecimila, la domanda è: quante parole ha digitato lei per ottenere quelle diecimila parole? Se l’input fosse stato inferiore all’output, allora direi che, in una certa misura, sta riducendo il suo contributo al romanzo. Sta riducendo la quantità di “paternità” che può rivendicare sull’opera.
ⓢ Come si sente, da scrittore e lettore, sapendo che contenuti generati o assistiti dall’AI sono già nelle librerie, magari senza che venga dichiarato?
Penso che probabilmente accadrà sempre più spesso. Tuttavia, ci sono questioni legate al copyright e ai contratti editoriali da non sottovalutare. Quando firmi un contratto, dichiari legalmente di essere l’autore del libro. Se usi il lavoro di qualcun altro, devi essere trasparente, perché l’editore vuole evitare responsabilità legali. Negli Stati Uniti, l’ufficio del copyright richiede una “sostanziale interazione umana” per concedere il copyright. Quindi, se si è onesti, c’è un limite a quanto si può usare l’AI generativa. Questi sono meccanismi che, almeno nell’editoria tradizionale, pongono dei limiti. Ovviamente, con l’autopubblicazione o l’editoria online non ci sono regole. Dobbiamo essere chiari su cosa sta succedendo: le persone stanno mentendo. Stanno rivendicando la paternità di un’opera che non hanno scritto. Le istituzioni letterarie cercano di minimizzare la quantità di menzogne. Forse queste istituzioni si eroderanno e mentire diventerà più accettabile. Spero non accada. La vedo come una spinta continua: sempre più persone cercheranno di mentire, e chi si preoccupa della verità cercherà di resistere. Non so come andrà a finire, ma dovremmo intendere questo fenomeno come uno sforzo per normalizzare la menzogna. E se ci si oppone alla menzogna, si dovrebbe contrastare questa tendenza.
Lo abbiamo incontrato a Milano e con lui abbiamo parlato del suo nuovo romanzo, di cavi in fibra di vetro piazzati sul fondo del mare, di Leonardo DiCaprio, del Papa, di ChatGPT e di vini bianchi.
