Anche i boomer hanno fatto cose buone, tipo Techetechetè

Su due cose possiamo essere tutti d'accordo: che il palinsesto estivo è un deserto post apocalittico e che Techetechetè dimostra che i boomer hanno avuto anche la televisione migliore.

02 Luglio 2025

«This is THE italian summer» scrive un utente su X allegando quattro foto: una dell’Antico Vinaio, una dal set di Call Me By Your Name, un anziano tatuato che mangia spaghetti al pomodoro in stile maccarone m’hai provocato, un lettore de Il Mattino con Vesuvio alle spalle e sigaretta in bocca. Il post ha un milione di visualizzazioni, ma soprattutto tante risposte di persone che con l’italian summer ci convivono molti più mesi l’anno di quanto questa stagione non dovrebbe imporre, dato che il luogo comune sulle mezze stagioni che hanno smesso di esistere è diventato solida realtà e con lui anche quel vago senso di apocalisse che ci rende una generazione di choosy che non fa figli.

Tra incendi, tabelloni di treni con ritardi di svariate ore, città invase dal turismo e spiagge tutt’altro che solitary, come cantava il Maestro, forse l’unica cosa che resta del Novecento e dell’epoca in cui l’estate era tutta un Sorpasso, ferie lunghissime, Cuccioloni a buon mercato, potere d’acquisto e baby pensioni sono gli echi dei cinema all’aperto. Per il resto, non ci resta che ricordare.

The world you were raised to survive in no longer exist, dice il famoso meme con la bambina che alle spalle ha le Torri Gemelle. Tra le vittime innocenti dell’italian summer degli anni Venti del ventunesimo Secolo, molto poco roaring, c’è il palinsesto estivo. La televisione, che già durante l’anno si arrabatta come può per far fronte alle sue emorragie di ascolti e ai flop che la prendono a pesci in faccia, soffre il caldo più di un orso polare allo zoo di Fasano – e la metafora non è nemmeno di fantasia.

Non è colpa del riscaldamento globale, o meglio, forse in parte lo è pure, ma della triste realtà che ci riguarda in quanto abitanti di uno straordinario paese fatto di pizza, spaghetti, mandolino e Una canzone per Padre Pio: il vecchio muore e il nuovo non avanza, diceva Gramsci un secolo fa, ma nel nostro caso, più che morire, il vecchio vivacchia col telecomando in mano, mentre il nuovo scrolla TikTok, e il risultato lo possiamo apprezzare con i nostri occhi. In tv, d’estate, non succede assolutamente niente, fatta esclusione di due cose: Temptation Island e Techetechetè.

Se per il primo dei due pilastri estivi dell’italian summer, all’insegna delle sedie di plastica targate Algida e delle docce nell’Autan, il successo si spiega non tanto con la collocazione ma con la materia stessa di cui sono fatti i viaggi nei sentimenti – tant’è che si vociferava anche di un Temptation Winter più vanziniano –, cioè l’idea geniale che sta alla base del format, gente che si fa le corna ripreso da una telecamera a infrarossi con Tezenis che fa da sponsor ai perizomi e Vitasnella alle bottigliette d’acqua da lanciare contro il pinnettu, per il secondo la questione è più complessa.

“Complessa” in realtà non è neanche la parola giusta, dal momento che forse sarebbe meglio dire tragica:  anche Techetechetè (la nuova stagione è cominciata il 29 giugno) infatti, a modo suo, è un viaggio nei sentimenti ma senza Filippo Bisciglia e le sue camicie di lino color salmone, dove la nostra relazione tossica col passato che non vogliamo lasciare andare via ritorna proprio nel momento in cui il falò dovrebbe concludersi con ciascuno per la sua strada. Da un lato la Prima Repubblica, la Rai di Pippo Baudo, Renzo Arbore e Raffaella Carrà, la televisione pedagogica, la Rai 3 di Guglielmi, il varietà, il tubo catodico che filtra magicamente i visi dei conduttori senza bisogno dei reattori nucleari di Rete 4 o della calza di Berlusconi, Fabrizio Frizzi e la luna nera, Tonio Cartonio e la Melevisione, dall’altro Pino Insegno e Gennaro Sangiuliano inviato del Tg2. Dirsi addio, in questi casi, è difficile.

È difficile perché crogiolarsi nei bei ricordi, anche quando non sono nemmeno i nostri ma quelli costruiti selettivamente con un espediente nostalgico e postmoderno che subentra nel vuoto di un futuro incerto, è una prospettiva molto allettante, quasi come ritornare col proprio fidanzato violento con cui stiamo da quando abbiamo dodici anni e che non ci lascia fumare una sigaretta perché altrimenti siamo delle scostumate.

È difficile perché ammettere che siamo alla frutta, creativamente parlando, televisivamente manco a dirlo, fa male, e avere una coperta di Linus fatta di un patchwork di montaggi delle cose migliori che il mezzo di comunicazione per eccellenza del secolo scorso ha veicolato è quanto di più rassicurante possiamo chiedere, soprattutto durante la stagione che meglio si presta all’abbandonarsi alla nostalgia. L’estate, la fine della scuola, l’assenza di responsabilità, le magliette fine dei piccoli grandi amori e tutte le altre immagini da Sapore di Mare che Tommaso Paradiso ha saputo convertire in una miniera di streaming con le sue hit da pubblicità Cinque Stelle Sammontana.

Techetechetè si configura dunque come la migliore macchina del tempo escapista per un presente in cui, se si vuole sopravvivere, la tecnica dello struzzo spesso appare come unica soluzione praticabile. E allora affondiamo la testa nella sabbia tra un Canzonissima e un gorgheggio di Mina, balliamo con Monica Vitti e ridiamo con Troisi e Verdone, rivendichiamo il posto sul divano accanto a nonna – se ce l’abbiamo ancora, altrimenti va bene un over settanta qualsiasi – e, provvisti di qualche fetta di anguria, godiamoci questo amarcord violento che ci consola con la sua mano che può essere piuma, quando è dolce ricordo, o ferro, quando ci sbatte in faccia la realtà: la televisione, per come è stata fino a quando aveva ancora la possibilità di produrre immaginari, personaggi e cultura popolare, prima delle bombe della disintermediazione, del calo demografico, del riscaldamento globale e di tutte quelle altre cose che ci fanno sentire ansia per il futuro, è morta. Con lei anche l’italian summer e la nostra infanzia, ma di questo, purtroppo, i bravissimi montatori Rai che ogni anno cuciono episodi monografici da sogno possono farci ben poco.

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