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Perché gli anni Ottanta non smettono di tornare

Stranger Things, la serie che pesca da Spielberg e King, spopola perché viviamo in un'epoca ossessionata dal passato recente.

25 Luglio 2016

Quattro ragazzini intorno a un tavolo giocano a Dungeons & Dragons. Si raccontano storie di mostri e, mentre lanciano dadi a venti facce e muovono cavalieri di plastica sulla mappa di un mondo fantastico, tentano di dare forma all’ignoto, alla tenebra che a quell’età avvolge tutto ciò che rimane fuori dalla loro stanza: il mondo senza mappe abitato dai genitori, dai bulli a scuola, dalle ragazze, e quello ancora più grande e terribile che filtra in salotto attraverso la televisione. Stranger Things è tutto qui. La serie, scritta e diretta dai fratelli Matt e Ross Duffer, è stata messa online da Netflix il 15 luglio scorso. Una casualità non proprio felice, quella di esordire nella settimana più turbolenta e drammatica per la politica internazionale degli ultimi quindici anni. Ma forse non poteva capitare un momento migliore per soddisfare il diffuso desiderio di un un rifugio nel passato al limite dell’escapismo. Del resto, se c’è un sentimento condiviso oggi, mi sembra, è proprio quello di sentirsi senza mappe.

Ambientato in una tipica zona suburbana dell’Indiana all’inizio degli anni Ottanta (gli anni in cui per la prima volta nella storia Usa la popolazione dei sobborghi supera quella cittadina), Stranger Things è la storia di tre ragazzini che, aiutati da una misteriosa coetanea dotata di poteri telecinetici, tentano di ritrovare il loro amico scomparso nel nulla. C’è un mostro alla Alien che rapisce e uccide i bambini e gli adolescenti, c’è una base della Cia o di qualche agenzia governativa che compie esperimenti segreti e origlia le telefonate, ci sono le sorelle maggiori che scoprono il sesso col quarterback del liceo, c’è Winona Ryder, le bmx e le ricerche di notte nel bosco. Già sentita? La risposta è «Sì, ma non è il punto». Perché Stranger Things è il più sistematico, pervasivo e totalizzante riuso dell’immaginario pop americano degli anni Ottanta che si sia visto dai tempi di Donnie Darko.

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Tra i testi sacri dei fratelli Duffer ci dev’essere l’opera completa di Stephen King, a cominciare da IT e Stand by me. L’autore di Carrie avrebbe potuto chiedere i diritti per il soggetto se non fosse già così incommensurabilmente ricco da potersi permettere un munifico tweet di elogio. Il richiamo a King è evidente fin dai titoli di testa che ricordano il lettering delle sue copertine e i titoli dei film tratti dai suoi libri disegnati dal grande Richard Greenberg. La locandina, invece, richiama lo stile di Drew Struzan, l’artista che ha illustrato buona parte dei poster appesi nelle nostre camerette, da Star Wars a Rambo, da Indiana Jones ai Goonies. Ecco, Steven Spielberg è l’altro riferimento immediato di Stranger Things, e se fortunatamente non si arriva al mimetismo stolido di certo cinema di J.J. Abrams, neanche qui mancano le “Spielberg faces“. Ma è soprattutto nell’atmosfera e nel modo di intrecciare le storie dei ragazzini con quelle degli adulti che si ritrova il regista di E.T. e produttore dei Goonies.

King e Spielberg sono però solo i due richiami più evidenti e scontati: dentro Stranger Things c’è il Carpenter della Cosa e di The Fog, ma anche il Carpenter musicista, con i suoi sintetizzatori freddi e perturbanti; c’è Stati di allucinazione di Ken Russell; c’è Scanners di Cronenberg e praticamente ogni cosa a cui possiate pensare girata e prodotta negli anni Ottanta. Eppure quello che a me tornava di più in mente (soprattutto nelle prime puntate, poi ci si lascia prendere), con tutti questi bambini in fuga, scienziati deliziosamente low tech, poliziotti burberi ma dal cuore buono, era il Bud Spencer di Uno sceriffo extraterrestre… poco extra e molto terrestre.

Dungeons & Dragons è stato inventato a metà dagli anni Settanta da Gary Gygax come evoluzione dei giochi strategici da tavolo. Gygax ci ha aggiunto un complesso sistema di regole in grado di simulare l’evoluzione e la crescita dei personaggi e l’interazione dei giocatori con l’ambiente narrativo creato dal Master – una specie di giocatore non giocante che ha il compito di inventare la storia, gli avversari, i tranelli che gli altri personaggi/giocatori dovranno vivere. È negli anni Ottanta, però, che D&D conquista un successo di massa, con annessi gli isterismi dei benpensanti per la paura che conducesse i ragazzini al satanismo, alla droga o contemporaneamente a entrambi – e non solo alla sfiga come un po’ temeva chi ci giocava davvero. Negli anni Ottanta entrano nelle case anche i primi home computer e console come l’Atari 2600 e, qualche anno dopo, il Nes della Nintendo.

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I giochi di ruolo, a quel punto, si trasferiscono sul computer: lo racconta Michael Clune, oggi professore di letteratura alla Case Western Reserve University, in un libro pubblicato da Farrar, Straus and Giroux lo scorso anno; in Gamelife, Clune ripercorre la sua infanzia attraverso sette videogiochi (dall’oscura avventura testuale Suspended a Wolfestein, passando per Ultima III, Pirates!, o il punitivo Elite) e quello che gli hanno insegnato: il lutto, la perdita, l’alienazione, la solitudine. Concetti con cui un bambino viene costantemente in contatto e che attraverso i videogiochi riesce a elaborare, a venirne a patti costruendosene un’immagine, in maniera non molto diversa da altre forme artistiche, anche più complesse, come la letteratura. Gamelife è un’indagine proustiana sulla dipendenza (il libro precedente di Clune era sempre un memoir ma dedicato a un passatempo dei suoi anni del college: l’eroina) e sull’empatia, cioè sui modi e i linguaggi che utilizziamo per raccontare noi stessi e relazionarci agli altri.

L’estetica di cui è pervaso Stringer Things mi piace definirla un’estetica da “Atari age”: molta della sua bellezza, cioè, si può ritrovare proprio nelle identità grafiche e nelle illustrazioni per le cartucce dell’Atari. È quell’affascinante cozzare tra la grafica minimale delle prime console, grossi blocchi di pixel che al più suggerivano un oggetto e un personaggio (non erano astronavi quelle di Space Invaders, erano simboli di astronavi), e le sgargianti, stilosissime e mimetiche illustrazioni sulle scatole di cartone (realizzate con strumenti analogici: pennello, aerografo, caratteri trasferibili). Se ne potrà ripercorrere la storia nel volume in uscita a ottobre The Art of Atari, che si annuncia molto ricco.

La retromania non è certo nata nel mondo videoludico, ma in esso ha trovato un campo di elezione. È di soli pochi giorni fa la notizia che in autunno Nintendo commercializzerà una versione micro del Nes con memorizzati trenta giochi dell’epoca, da poter utilizzare sul televisore di casa. Mentre qualche mese dopo, a marzo 2018, uscirà il nuovo film di Spielberg, Ready Player One, tratto dall’omonimo romanzo di Ernst Cline (in Italia pubblicato da Isbn). In Ready Player One un ragazzo è impegnato in un’enorme caccia al tesoro globale che si svolge in una realtà virtuale a metà tra Internet e un gioco di ruolo a cui tutta l’umanità è connessa. Qui il creatore del sistema, una specie di Steve Jobs del futuro, ha nascosto la sua eredità prima di morire; solo che il miliardario era ossessionato dagli anni Ottanta, l’epoca della sua infanzia, e tutta questa realtà virtuale è un’enorme ricostruzione di quella stessa epoca: il libro è pieno di riferimenti ai videogiochi di quegli anni, ai film di Ritorno al futuro e Ghostbusters (che non a caso è appena uscito il remake) e alla televisione con il tubo catodico. Il cerchio si chiude: come in Donnie Darko, appunto.

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Ma perché gli anni Ottanta non smettono di tornare? Il fatto è, credo, che non stanno tornando affatto: anzi, non sono mai stati così lontani. Il problema non sono gli Ottanta, il problema, se mai, è il presente. Nessuna epoca della storia è stata tanto ossessionata dal passato recente. Lo ricorda anche Simon Reynolds nel testo fondamentale sul tema, Retromania: ogni epoca ha avuto i suoi innamoramenti per il passato, ma era un altrove distante nel tempo e la sua riappropriazione lasciava spazio a travisamenti, reinvenzioni, variazioni creative (basti pensare ai preraffaelliti o al neogotico). Il passato che andiamo a ripescare, invece, è immediatamente presente e non solo perché c’eravamo e ce lo ricordiamo, ma perché è costantemente riproducibile, archiviato, digitalizzato: questo passato è un archivio di immagini e idee richiamabile con un click, manipolabile, eternamente remixabile. Non una memoria da recuperare ma un servizio di cui fruire, senza selezione.

Il fascino degli Ottanta, poi, lo vedo legato a due elementi che ne fanno il fantasma perfetto delle nostre ossessioni. Il primo fattore è collegato al mal d’archivio di cui sopra: gli anni Ottanta sono stati l’epoca d’oro, lo zenit e allo stesso tempo l’inizio del declino, del mainstream. Oggi viviamo in un momento storico in cui nemmeno Beyoncé è davvero mainstream: ogni nicchia ha diritto a esistere e proliferare, ogni tendenza e ogni identità si espande all’infinito come un frattale, rimanendo puntiforme. Sapreste identificare uno stile musicale, un genere cinematografico originale, che incarni davvero lo spirito del tempo del Ventunesimo secolo? Invece quando quello che resta di Hollywood deve cercare un blockbuster estivo lo va a pescare negli anni Ottanta. Il secondo, e più importante, fattore di resistenza degli Ottanta nel nostro immaginario è che sono stati l’ultimo tempo prima di Internet. L’ultimo decennio prima dell’invasione dell’informatica e della rete, dei computer e degli effetti speciali; non si tratta però di un eden precedente al digitale, e perciò irraggiungibile: incarna invece la fantasia perfetta di un tempo in cui questi elementi così presenti nelle nostre vite erano lì, sì, ma erano controllabili, gestibili, avevano ancora un volto umano. Durante l’infanzia del mondo giocavamo a Dungeons & Dragons.

In copertina, immagini da Stranger Things; nel testo, locandine disegnate da Drew Struzan.
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