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Stone Island, dalla via Emilia al West

Il marchio emiliano ha presentato a Los Angeles Selected Works ‘982-‘024, la sua prima grande mostra d’archivio negli Stati Uniti, e un lungometraggio che celebra l’Emilia, l’artigianalità, la cura con cui da 42 anni si produce eccellenza.

di Davide Coppo

La memoria è una cosa preziosa perché è in via d’estinzione. In quest’epoca digitale, dove tutto è archiviabile, archivio e archiviato, è difficile ricordare. Rimangono certe tappe, di quelle che segnano un percorso. Ricordo a memoria una serie di “prime volte” importanti, quelle capaci di cambiare, anche solo di pochi gradi, l’inerzia di una vita. Non parlo di primi baci e cose così, ma di cose più legate alla cultura, intesa come complesso di esperienze acquisite da un individuo e costitutive della sua personalità. La prima volta allo stadio. Il primo trip con un acido. Il primo concerto da solo, nelle prime file, schiacciato tra migliaia di corpi. Il primo capo Stone Island. Comprato a vent’anni e dopo mesi di risparmi. Certo, è ancora con me, vent’anni e diversi traslochi dopo. Il badge è scolorito e con gli angoli arricciati, andrebbe stirato. I gomiti si sono bucati dall’usura. Avevo, al tempo, il terrore di utilizzarlo per paura che si rovinasse, e allo stesso tempo non avrei voluto mai toglierlo.

Acquistare un pezzo di Stone Island era come mettere un mattone all’edificio della propria identità. Era la messa in atto di un carattere che già sentivo in potenza, ma che andava esplicitata in qualche modo. Non tutti i vestiti riescono a farcela, naturalmente. È una forza quasi magica, ma Stone Island ce l’ha: sono uniformi, dichiarazioni, sono appartenenza. Se un giubbotto significa appartenere a qualcosa, la domanda successiva diventa: quali sono allora le caratteristiche di questo gruppo? Le religioni funzionano con un meccanismo top-down: i sacerdoti del culto impongono una certa ritualità o abbigliamento ai devoti, e questi eseguono. Con certi marchi, come Stone Island, il meccanismo funziona quasi all’opposto: sono gli adepti che creano una mitologia, in un certo senso, intuendo qualcosa di implicito e sottile che il marchio ha più esplicitamente o meno comunicato. Ma è più un discorso orizzontale e paritario, che si sviluppa organicamente. Stone Island ha da subito dato qualcosa ai suoi clienti. Stone Island ha poi imparato altro da come questi clienti hanno interpretato il marchio, e si è evoluta di conseguenza. Per questo, in realtà, “clienti” è una parola limitante. Per questo, in realtà, si può davvero parlare di comunità.

A Los Angeles, nell’ultima settimana di febbraio 2023, Carlo Rivetti e Stone Island hanno celebrato questa storia, questa comunità, questa formula magica difficile da descrivere. Sono stati cinque giorni di esposizione, si chiamava Selected Works ‘982-‘024: una mostra monumentale di 42 pezzi d’archivio, con una sezione dedicata a 12 giacche Reflective, un’installazione di 35 modelli di capi Pure Metal Shell, e 7 pezzi rarissimi della serie Prototype Research. E poi talk, dj-set, proiezioni: di un cortometraggio e di un lungometraggio, quest’ultimo girato a Ravarino, la casa di Stone Island nella pianura emiliana, dal regista tedesco Ken-Tonio Yamamoto. Carlo Rivetti, Presidente di Sportswear Company S.p.A., presiedeva su tutto, parlava con gli occhi sempre emozionati della sua “Stone”, diceva «noi non facciamo la moda», spiegava tessuti, lavorazioni, funzionalità, salutava teenager americani che lo guardavano ammirati e lo chiamavano «Rivèdi».

Stava in disparte invece nella pellicola di Yamamoto, che si chiama Infinite Colours, ed è stata girata nei mesi della pandemia: parlano qui invece solo i dipendenti, da Andrea Moro, che da quasi vent’anni fa il Product director, a chi si occupa del controllo qualità, dei campioni, di cucire i capi, di tingerli, e così via. Uomini e soprattutto donne che parlano con l’accento forte modenese, parlano di un’azienda che è una famiglia, di territorio, di sentimenti. Non è uno degli astuti camuffamenti del capitalismo, tutt’altro: è invece qualcosa di antico, l’artigianato come valore umano, è la cura, è “la Qualità”, per dirla come Robert Pirsig. È difficile da spiegare perché è qualcosa che ha a che fare con il senso di appartenere. Un’identità, un orgoglio, non nazionalistico ma certamente rivendicato. Un po’ di commozione, quindi: ingenuamente, sentirsi parte di questa storia.