Cultura | Musica

Vita leggendaria di Steve Albini

A 61 anni è morto uno dei musicisti – e autore, produttore, critico – più influenti della storia della musica, l'uomo al quale dobbiamo l'esistenza stessa del concetto di indie.

di Federico Sardo

Ieri pomeriggio ho visto questo video da un minuto, postato su X da Tim Cook, che annuncia l’arrivo del nuovo iPad Pro. Si vedono un metronomo, un giradischi, una tromba, un pianoforte, un cabinato per arcade, un paio di casse, una chitarra, un amplificatore, dei colori a tempera, forse (se non è suggestione) anche un banco mixer. Tutti questi oggetti legati alla creatività “nel vecchio mondo” vengono schiacciati e distrutti da una enorme pressa, e quando questa si alza vediamo il nuovo iPad; la canzone di Sonny e Cher recita “All I Ever Need is You”. Il video è ovviamente molto ben fatto e di grande impatto, anche se verrebbe quasi da dire un po’ violento. I commenti infatti non sono molto positivi: è abbastanza scioccante vedere presentata in maniera festosa la distruzione di oggetti che per decenni o secoli sono stati i compagni di lavoro degli artisti più o meno in tutto il pianeta. Sarebbe ingenuo credere che un colosso come Apple realizzi una pubblicità del genere senza pensare alla possibilità di questo rinculo comunicativo, quindi viene da interpretarla più come una decisione chiara: basta inclusività, amore, buoni sentimenti e caffetterie per hipster, vi facciamo vedere che facciamo quello che ci pare, e che se vogliamo siamo praticamente Godzilla, e distruggiamo tutto quello che c’è sulla nostra strada.

Poche ore dopo ha cominciato a girare la notizia, presto confermata, della morte di Steve Albini, a casa sua a Chicago, per un attacco di cuore, a sessantun anni, mentre per il 17 maggio è prevista l’uscita del sesto album dei suoi Shellac (To All Trains), e a loro è dedicata la copertina del numero di The Wire in uscita oggi. L’intervista che la accompagna può essere un punto di partenza, tra i tanti, per spiegare il personaggio. Viene svolta, infatti, senza che la giornalista abbia potuto ascoltare il disco: «Non li abbiamo mai fatti ascoltare prima della data d’uscita. Vogliamo essere equi con tutti, senza favoritismi […] altrimenti si crea una struttura di potere, alcuni lo possono ascoltare, si sentono parte di un piccolo club, e diventa una mossa promozionale che fa leva sulla vanità, per far scrivere certe cose. Non vogliamo partecipare a questo gioco. Facciamo i dischi, vanno nei negozi, e se la gente li vuole se li prende». Questo era Steve Albini, alfiere del DIY, irraggiungibile modello di integrità.

Nato nel ’62 a Pasadena gira gli Stati Uniti a seguito dei genitori fino al ’74, quando si fermano in Montana, e lì è dove comincia a suonare il basso e ad appassionarsi alla musica, soprattutto grazie alla scoperta dei Ramones e del primo punk. È Chicago però il posto dove entra a far parte di una scena, dove comincia a comprare dischi compulsivamente, scrivere su fanzine e riviste, e fare amicizia con tutti quelli che gli sembravano outsider quanto lui: «Non ho fatto niente da solo. Ho fatto tutto come partecipante di una scena, di una comunità, di una cultura, e quando vedo qualcuno che prende da questa cultura anziché parteciparvi da pari, non posso pensarne bene». La musica rimarrà per sempre la sua ragione di vita, respirata, per la mimetica immedesimazione di molti di noi, con nerdismo e ossessione, come sa per esempio chiunque sia stato al Primavera Sound. Unico festival al quale avesse piacere di partecipare, con gli Shellac ci ha suonato per quindici anni di fila, e quando non suonava girava per i palchi a sentire i concerti, in mezzo al pubblico: in quei giorni di maggio o giugno le foto di Albini che mangia un panino comparivano sui social quasi più spesso di quelle dei live. Da sempre luminoso rappresentante della teoria per la quale i musicisti più interessanti sono quelli che sembrano degli impiegati di banca, il suo aspetto e il suo modo di vestire erano così ostentatamente uncool da fare tutto il giro per diventare un’icona.

Perché Albini è stato una leggenda. Uno il cui ruolo nella musica più o meno definibile come rock negli ultimi quarant’anni è impossibile da sovrastimare. Il termine “indie” oggi ha perso completamente il suo significato originario, ma se a quello ci vogliamo attenere, nessuno è stato più indie di Steve Albini, padrino del noise rock, produttore di infiniti dischi e assoluti capolavori, chitarrista pazzesco per tonalità e stile, artefice di un suono inconfondibile, come un marchio di fabbrica.

La sua prima band importante sono i Big Black, trio che parte dal post-punk dalle chitarre aggressive di Gang of Four e Killing Joke, attraversa industrial e post-hardcore, elimina la batteria in favore di una drum machine, e porta il livello di violenza verso territori mai battuti. Due album, Atomizer e Songs About Fucking, e due capolavori assoluti, roba mai sentita prima, il grido disperato di un’umanità devastata dal male, il cuore marcio dell’Occidente messo su disco, a partire dalla “Jordan, Minnesota” che apre l’LP d’esordio riferendosi a un presunto giro di pedofili (la storia riportata dai giornali si scoprirà poi essere falsa, e Albini ha passato tutta la vita a pentirsi di quel testo, ma quello è un altro discorso). Nella sua musica il male è quasi sempre raccontato dalla parte del carnefice, l’arte si mette al servizio della rappresentazione dei bassifondi dell’animo umano, e i suoi temi più ricorrenti sono violenza, misantropia, vendetta, rabbia. Dallo stesso disco, forse il suo capolavoro assoluto, non si può non citare almeno anche “Kerosene”, tuttora una delle più spaventose esplosioni di violenza mai incise. Sul secondo album compare anche una cover di “The Model” dei Kraftwerk, e i robot diventano mostri in un altro dei suoi colpi di genio. Piero Scaruffi una volta ha scritto: «Nessuno come loro sa trasformare in musica l’assenza di Dio»: parlava degli Unsane, ma siccome è improbabile che mi trovi mai a scrivere di loro, facciamo che io me la gioco oggi. Finita l’esperienza dei Big Black è il turno dei Rapeman, un nome che è già tutto un programma. È interessante citare almeno la title track di Budd, EP live del 1988, a dimostrazione del genio musicale del titolare della sigla: fatta com’è di vuoti e silenzi e improvvise brevi esplosioni, è praticamente un’anticipazione di tanto post-rock che diventerà cruciale solo nel decennio successivo.

Da sempre luminoso rappresentante della teoria per la quale i musicisti più interessanti sono quelli che sembrano degli impiegati di banca, il suo aspetto e il suo modo di vestire erano così ostentatamente uncool da fare tutto il giro per diventare un’icona

Ma la leggenda di Albini non è solo legata al suo ruolo come musicista. Messo in piedi a Chicago l’Electrical Audio Studio, infatti, diventa il produttore più importante del rock degli anni Novanta, anche se la parola produttore non gli è mai piaciuta, e ha sempre preferito essere accreditato come tecnico del suono. Famoso anche, in questo senso, il suo non avere mai voluto percentuali sulle vendite dei dischi a cui ha lavorato, e nel caso di un certo disco che ha venduto quindici milioni di copie non stiamo parlando di cifre trascurabili. Il disco è In Utero dei Nirvana, al quale arriva dopo essere già diventato un punto di riferimento. Cobain infatti lo cerca perché ha lavorato su due dei suoi dischi preferiti: Surfer Rosa dei Pixies e Pod delle Breeders. Il suo stile è semplice, diretto, rigorosamente analogico, preciso, grezzo, lontano dal mainstream, simile a quello che potresti sentire live, ed è tutto quello che il gruppo vorrebbe per distaccarsi dall’enorme successo commerciale di Nevermind, che hanno sempre considerato troppo pulito. Il marchio di fabbrica di Albini sembra perfetto a questo scopo: voce non in primo piano come vorrebbe il mondo radiofonico, basso potente, chitarra violenta, batteria registrata con una moltitudine di microfoni vintage sparsi per la stanza, a dare al suono anche una serie di riverberi naturali. Oltre ai già citati, in questo senso, non possiamo non menzionare innanzitutto il suo lavoro sui dischi dei Jesus Lizard, su Rid of Me di PJ Harvey o Tweez degli Slint.

Le cose con i Nirvana sembrano funzionare, ma poi si mette di mezzo la casa discografica. Albini non vorrebbe, ma alla fine è costretto a lasciare che almeno i singoli del disco vengano mixati in modo diverso, da Scott Litt, e che l’album venga rimasterizzato. Un compendio dell’Albini pensiero sul processo per il quale l’indie stava venendo inglobato dalle major si può trovare in un suo lungo articolo scritto per The Baffler nel 1993: è una lettura interessante, e fondamentale per capire l’approccio del nostro eroe rispetto al music business.

Produttore ormai conosciutissimo, Albini non smette però di essere musicista. Nel 1994 esce il primo album di quella che resterà la sua ultima grande band, gli Shellac. Live band semplicemente clamorosa, senza fronzoli anche su disco, da una matrice noise e post-hardcore i tre vanno ad aumentare il grado di asimmetria e stranezza, giocando sull’alternarsi di quiete e tempesta, ripetizioni e ossessività. Nell’esordio At Action Park quello che rimane del concetto di post-punk è dissezionato, destrutturato e massacrato con perizia insieme folle e chirurgica; in 1000 Hurts (2000) compare “Prayer to God”, uno dei brani più memorabili di Albini per il testo, per la performance vocale, e per l’impatto di quella che è anche, tutto sommato, una canzone bellissima nella sua disperazione.

Come avrete notato mi sto limitando a sottolineare l’importanza di qualche disco, e a menzionare qualche perla sparsa: non ci sono punti bassi nella carriera di Albini, o cambi di direzione imprevisti, né episodi non riusciti. Ci sono cose più significative, ma più o meno tutti i dischi dei suoi tre progetti principali (Big Black, Rapeman e Shellac) stanno tra il capolavoro e il molto buono, ed è difficile pensare che qualcuno che apprezzi uno di questi possa ritenere meno che valido qualcuno degli altri. Ha sempre fatto musica quando voleva farla, e si sente.

Negli anni, oltre a girare il mondo e pubblicare altri album con gli Shellac, Albini ha continuato a registrare band (sta nei credits di, letteralmente, migliaia di dischi – ai già citati aggiungiamo solo Zeni Geva, Hissing Prigs in Static Couture dei Braniac, Pussy Galore, Silkworm, Melt Banana, Guided by Voices, Don Caballero, Godspeed You Black Emperor, Mogwai, Joanna Newsom, Low, Jawbreaker, Neurosis, Helmet, Motorpsycho, McLusky… Ma anche i nostri Uzeda, Zu e 24 Grana) nel suo studio di Chicago, con tariffe normali, quindi clamorosamente basse per un nome del suo calibro. Inoltre, ha comunicato generosamente con il mondo attraverso internet, dispensando consigli a chiunque gliene chiedesse. Non ha mai smesso di essere rigido e stronzo quando lo voleva (come nella famosa risposta a Powell che gli chiedeva di poterlo campionare: «I am against what you’re into, and an enemy of where you come from»), ma in fondo buono (la lettera si concludeva dicendogli che era libero di fare quello che gli pareva), e negli ultimi anni ha anche avuto modo di riflettere pubblicamente sui problemi relativi alla rappresentazione della violenza nella musica della sua gioventù, dicendosi pentito di aver alimentato un certo modo di comunicare edgy relativo a tematiche sensibili («Chiunque pensi che abbiamo oltrepassato la soglia della decenza con i nostri testi o che il pubblico abbia il diritto di pretendere una qualche responsabilità sociale da una band, è un imbecille e dovrebbe mettermi la lingua nel culo», scriveva nei primi Novanta), e dichiarandosi un sostenitore del femminismo. Tra le altre cose, la sua attività social degli ultimi decenni ci ha fatto scoprire anche la sua passione per il poker (ha vinto numerosi tornei importanti), per i video di gattini, e le attività di beneficenza che faceva ogni Natale insieme alla moglie.

Come avrete notato mi sto limitando a sottolineare l’importanza di qualche disco, e a menzionare qualche perla sparsa: non ci sono punti bassi nella carriera di Albini

Se c’è una parola che ha rappresentato la sua vita, quella potrebbe essere integrità: aveva i suoi princìpi e le sue regole, non solo (notoriamente) nello studio di registrazione, ma anche nella propria vita, e non scendeva a compromessi. Una rigida condotta di comportamento che è poi forse la più importante e più tradita tra le lezioni del punk. In uno scenario dominato dagli algoritmi, dalla musica come branded content, dalle piattaforme di streaming all-you-can-eat, dalle popstar che ricercano la viralità su TikTok, e in cui le corporation decidono di mostrarsi allegramente intente a distruggere gli strumenti per produrre la musica, la scomparsa di Steve Albini non può che suonare come l’ennesimo chiodo sulla bara di un mondo in via di estinzione. Anche se forse, concentrato com’era sul fare sempre e comunque la cosa giusta a dispetto di tutto, non sarebbe stato d’accordo con tutta questa rassegnazione.