Dopo tre anni di attesa, è arrivata la seconda stagione della serie di maggior successo degli anni 2020: nuovi giochi, nuovi personaggi e, stavolta, anche parecchie critiche.
Se nel capitalismo nessuno può sentirti urlare, che senso ha farlo una volta, poi una seconda, addirittura una terza volta? Squid Game è finita, l’ultima stagione (sarebbe meglio dire la terza parte) è arrivata su Netflix lo scorso 27 giugno e nessuno ha sentito l’ultimo urlo di Gi-hun, il giocatore 456, il surrogato del creatore, sceneggiatore, regista, gravissimo caso odontoiatrico Hwang Dong-hyuk. Certo, possiamo credere alle metriche gentilmente fornite (e mai davvero spiegate) da Netflix, in cui si racconta che Squid Game 3 è stata la cosa più vista da qui a Plutone. Oppure possiamo guardarci attorno, tendere l’orecchio alla ricerca di una voce che per l’ultima volta ci ricorda che «non siamo cavalli. Siamo esseri umani» e accorgerci che non si sente niente. Sono le ultime parole di Gi-hun, del giocatore 456, prima dell’estremo gesto che pone fine all’ultimo gioco. Ma cos’è che voleva dire, quella frase? Squid Game è stato la ricerca di una risposta a due domande. Una domanda era: che cos’è un essere umano in questo gioco al massacro in cui chissà perché, chissà come, abbiamo accettato di trasformare il mondo? L’altra domanda era: ma perché Gi-hun nel finale della prima stagione si era tinto i capelli di rosso?
«Gli esseri umani sono…»
Entrambe le domande resteranno senza risposta. Così come i capelli di Gi-hun alla fine hanno ripreso il loro colore naturale perché è così che funzionano le cose, allo stesso modo alla fine il giocatore 456 è tornato nel gioco perché si vede che è così che funzionano le cose. Citare Mark Fisher dovrebbe ormai portare allo stesso imbarazzo che viene dal citare Oscar Wilde, ma tant’è: è più facile immaginare la fine del mondo che la fine del gioco. Il nome del gioco sappiamo qual è. «Gli esseri umani sono…», dice Gi-hun (la bravura di Lee Jung-jae è ormai un fatto acquisito ma non dovrebbe esserlo affatto) rompendo la quarta parete e lasciando tutto in sospeso. Se non sono cavalli, cosa sono gli esseri umani? Lupi, verrebbe da dire, guardando la serie, citando Hobbes, citazione appena appena più accettabile di Wilde e Fisher. Se non hanno dato una risposta a queste domande, a cosa sono servite la seconda e la terza stagione di Squid Game?
Evidentemente a niente, e forse abbiamo frainteso tutto quanto sin dall’inizio: questa non è mai stata la storia di una rivoluzione, non c’è mai stata nessuna speranza, dietro l’orizzonte non c’è mai stato il sol dell’avvenire ma solo il prosieguo della storia. E anche questa, lo sappiamo, è così che funziona: prima la beffa, poi la tragedia. Il finale di Squid Game è un non finale e non può che essere così: il gioco esiste da sempre, ovunque. Soprattutto, si gioca per sempre: non abbiamo fatto in tempo a finire di vedere l’ultima stagione di questo Squid Game che Netflix ci ha fatto già sapere che ce ne sarà un altro. Lo dirigerà David Fincher, ci sarà Cate Blanchett, guest star dell’ultimo episodio che in realtà non è l’ultimo, è solo un episodio come tutti gli altri. Il finale di una serie diventa il teaser del suo stesso remake, la pubblicità di se stessa, l’intermezzo di uno spettacolo che non finisce mai. È il gioco, è la tragedia, è la beffa.
Hwang ci ha preso in giro, si vede. La prima volta ci ha fatto credere di voler raccontare la storia di un sopravvissuto. La seconda ci ha fatto sperare – ci sono cascato anche io, che adesso mi rimangio tutto quello che ho detto e scritto – in un vendicatore che ci avrebbe portato il riscatto (fittizio, ma comunque) per tutto il tempo che passiamo e passeremo a fare i cavalli. E invece alla fine, ma soltanto alla fine, abbiamo scoperto che Hwang voleva raccontare la storia di un perdente, di un derelitto, di un disperato per il quale è più facile immaginare la sua stessa fine che la fine del gioco. Proprio come noi. E allora che senso ha avuto starsene qui a guardare, ad aspettare per tutto questo tempo, se poi bastava guardarsi attorno, o dentro, per sapere come sarebbe andata a finire. «Il capitalismo è quello che resta quando ogni ideale è collassato allo stato di elaborazione simbolica o rituale: il risultato è un consumatore-spettatore che arranca tra ruderi e rovine». Forse Hwang è l’unico tra quelli che lo citano che Fisher lo ha letto davvero e lo ha capito bene.
Amarcord
Cos’è stato Squid Game? Una buona serie tv, non c’è dubbio. Dei set meravigliosi, parchi giochi in divenire, sicuramente. Ma soprattutto è stato un momento, forse un abbaglio, un’allucinazione. È quasi impossibile ricordarselo ora – ed è completamente impossibile crederci – ma c’è stato un momento neanche troppo lontano in cui dicevamo, credendoci, che non saremmo più tornati alla normalità perché la normalità era il problema. Era il 2021, il 17 settembre la prima stagione di Squid Game compariva su Netflix, un uomo con i capelli rossi diceva ai suoi aguzzini e ai loro scagnozzi che lui non era un cavallo, che stava venendo a prenderli, che il gioco che andava avanti da sempre lo avrebbe distrutto lui con le sue mani. Ci abbiamo creduto, a quello che diceva lui e a quello che dicevamo tutti. Per un momento, almeno. Poi il gioco è ricominciato e siamo tornati a giocare, noi come il giocatore 456. È tutto qui, allora? Sì, è tutto qui, ci ha risposto Hwang. Voi siete tornati in ufficio e Gi-hun è tornato sull’isola, perché lui è un fesso e voi delle vittime? Lui, almeno, una volta ha vinto e un’altra ha fatto vincere, a sua figlia lascia degli amabili resti, una tuta insanguinata e una carta di credito dorata. Voi?
Credevate davvero che un sistema si può distruggere dall’interno? Quanti anni avete, 13? Non lo avete letto Mark Fisher? Avete preso per buona la parola di un ludopatico, avvinazzato, indebitato come il giocatore 456. Avete pensato che sarebbe stato lui a salvarvi. Avete pensato che io fossi un ideologo e un agitatore, dice Hwang in questo ultimo atto della sua (proprio sua, personale) tragedia, io che ho accettato di trasformare il mio Manifesto in un brand da appiccicare su qualsiasi prodotto, dalle uova di Pasqua agli zaini per il back to school, dai Funko Pop ai reality show. Siete messi così male, se è da questi falsi profeti che vi aspettavate l’annuncio dell’arrivo del Paradiso socialista. Siete messi peggio di Gi-hun, convinto non si sa come, non si sa perché, che dal nuovo incontro con il gioco lui sarebbe sopravvissuto di nuovo e il gioco invece no. Ha detto in un’intervista a Hollywood Reporter, Hwang, che per un attimo ha pensato di dare alla serie un finale meno deprimente. Ma poi si è detto che quello era il limite che proprio non poteva superare: va bene approfittarsi dell’ingenuità altrui, ma non fino al punto di far credere che una giusta ricompensa attende chi combatte la buona battaglia.
Uomini e cavalli
Ovviamente, la frase «il capitalismo è quello che resta quando ogni ideale è collassato allo stato di elaborazione simbolica o rituale: il risultato è un consumatore-spettatore che arranca tra ruderi e rovine» vale anche per questa mia interpretazione di Squid Game. È possibile che nulla di quello che ho scritto fin qui corrisponda alle intenzioni dell’autore, è che Squid Game si sia rivelato semplicemente una one hit wonder, un gioco che come tutti i giochi sarebbe stato tanto più bello se fosse durato molto meno. Ma anche in questo caso, che ingenuità: tutti i giochi in questo mondo durano esattamente quanto devono durare, cioè il tempo necessario a far fare i soldi a chi deve farli (che poi è chi li fa sempre), sperando che per il principio della trickle down economics qualcosa finisca anche nei porta spiccioli di chi i giochi li inventa. Il migliore augurio che si può fare a Hwang Dong-hyuk è che nel suo porta spiccioli siano finiti almeno i soldi necessari a rimpiazzare i denti che gli sono caduti per lo stress causatogli dall’aver giocato così tanto, così a lungo a questo gioco, di essersi potuto permettere la ricostruzione di una bocca distrutta dall’ansia (comprensibile, quando si è costretti a certe insensatezze narrative pur di andare avanti ancora un po’) (sì, sto parlando del giocatore 222, in particolare del secondo giocatore 222, ma anche dell’inutilissimo poliziotto Hwang Jun-ho, due stagioni su tre passate a guardare carte nautiche e a nuotare verso l’isola sbagliata). Ma poi, questa storia dei denti che cadono sarà vera? O sarà come la storia del distruggere il sistema dall’interno, dell’interrompere il gioco giocando? E se Hwang fosse semplicemente uno con una pessima igiene orale?
Per tantissimo tempo, ho pensato che Gi-hun, il giocatore 456, fosse il surrogato dell’autore di Squid Game, Hwang Dong-hyuk, di tutti gli artisti che devono esserlo stando su un mercato, di tutte le persone che provano a rimanere tali dentro il capitalismo. Alla fine, ma soltanto alla fine, ho dovuto accettare che Hwang è il Frontman: ha partecipato al gioco, alla fine l’ha vinto, e ora non ha nessuna intenzione né alcun motivo di smettere di giocare. Anche se volesse smettere, non potrebbe in ogni caso. Proprio come noi, d’altronde, che per un brevissimo momento abbiamo creduto di essere Gi-hun, per poi ritrovarci Frontman. O, peggio, cavalli.