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Il nuovo Spider-Man salverà i supereroi

In Across the Spider-Verse c'è tutto quello che ha trasformato Un nuovo universo in un film di culto, ma anche molto di più: c'è una sfida al cinecomic, la volontà di superare un genere ormai consumato.

di Francesco Gerardi

La maggior parte delle discussioni rilevanti cominciano con una domanda stupida. «Cosa fareste se sapeste che c’è una festa fighissima alla quale il vostro migliore amico è stato invitato e invece voi no?», sembra sia la domanda dalla quale è cominciata una delle più rilevanti discussioni cinematografiche degli ultimi anni, ovvero la sceneggiatura di Spider-Man: Across the Spider-Verse. Phil Lord e Christopher Miller, il dinamico duo dietro il primo film della saga (Un nuovo universo, uscito nel 2018, vincitore dell’Oscar per il Miglior film d’animazione nel 2019, quasi 400 milioni di dollari d’incasso al botteghino mondiale a fronte di un costo di realizzazione di nemmeno 100), sanno bene qual è il problema che da sempre, ma soprattutto oggi, affligge i cinecomic: non rispondono a nessuna domanda, nemmeno a quelle stupide. I cinecomic oggi sono quello che viene fuori quando si mescolano fanservice e abitudine: accontentare una pretesa, rispettare le aspettative, andare avanti così. È la ragione per la quale sempre più attori in questi mesi stanno finalmente dicendo la loro (verità) sui film di supereroi: sono troppo stupidi, come ha detto, Chris Hemsworth di Thor: Love and Thunder. Non meritano il vero impegno di un vero interprete, ha aggiunto Anthony Hopkins. Una volta fatti, non sono certo tra le cose che un attore non vede l’ora di rifare, ha spiegato Elizabeth Olsen. Dave Bautista ha detto che il resto della sua carriera da attore sarà tutto uno sforzo volto a evitare di essere ricordato unicamente per la sua interpretazione di Drax. Scarlett Johansson ha trovato forse la metafora più azzeccata per descrivere i cinecomic e noialtri che ne abbiamo fatto il prodotto culturale di questi passati venti anni: «Sono come il campeggio estivo, però per gli adulti». Forse aveva ragione Scorsese quando diceva che quelli della Marvel non sono film. Forse non aveva poi esagerato tanto Iñárritu quando parlava di «genocidio culturale». Il New Yorker ha da poco pubblicato un pezzo intitolato così: “Come l’Mcu si è mangiato Hollywood”. C’è speranza per i cinecomic?

Nel 2023, i supereroi sono lo status quo della cultura pop, la conservazione dell’intrattenimento popolare. È per questo vedere Across the Spider-Verse è per certi – molti – aspetti sconvolgente. Perché per la maggior parte del tempo ci si trova davanti al mai visto prima, nonostante questo film appartenga al genere forse più visto della storia del cinema. Di più: Across the Spider-Verse è il mai chiesto, il mai immaginato prima. E dunque fa provare quella sensazione che ormai in tantissimi abbiamo dimenticato di vedere espressi sullo schermo desideri che nemmeno sapevamo di avere, materializzarsi sogni che neanche abbiamo mai sognato. Che è la maniera in cui si formano gli immaginari, ma soprattutto la ragione per la quale ci si appassiona al cinema. Prima di Across the Spider-Verse, non sapevo di desiderare fondali cangianti, semoventi, colorati come con acquerelli mescolati male, con una parte d’acqua esagerata che fa colare tutto il colore piano piano verso il basso. In una delle scene centrali del film, Spider-Woman/Gwen Stacy affronta il padre convinto che lei sia un’assassina. Lei non piange perché è uno di quei personaggi che non piangono, ma i colori del mondo attorno a lei colano in gocce sempre più grosse e più frequenti mentre i due, padre e figlia, si avvicinano all’abbandono. Non avevo mai visto i fondali usati in questa maniera e ora che l’ho visto vorrei che ogni film li usasse così.

C’è un altro momento che spiega perfettamente perché Across the Spider-Verse sopravviverà alla moda e all’hype, a differenza di quasi tutti gli altri film di supereroi. Al contrario di quello tra Spider-Woman/Gwen Stacy, questo è un momento irrilevante. Miles arriva finalmente nella Spider Society – la festa fighissima di cui sopra, alla quale Gwen è stata invitata e lui no – in mezzo a più di 280 uomini e donne e gatti e cani e dinosauri ragno provenienti da tutto il multiverso. In mezzo a colori accecanti e forme impossibili e movimenti di camera senza sosta lungo assi mai prevedibili, la regia a un certo punto si sofferma sul più irrilevante dei dettagli: i piedi di Miles che, emozionatissimo e nervosissimo per aver trovato quello che immagina essere il suo posto nel multiverso, si alzano sulle punte. Si può essere registi davvero anche lavorando con i supereroi, dunque. Ed è così, con il trucco cinematografico per eccellenza (la regia), che Across the Spider-Verse compie il suo inganno: si entra in sala pronti a vedere sostanzialmente un film d’azione e umorismo, ci si ritrova a trascorrere buona parte delle due ore e mezza di durata dello stesso tra personaggi fermi in una stanza a parlare, tra campi e controcampi che raccontano, alla fine, un romanzo di formazione. Certo ipercinetico e ipercromatico e iperdialogico, e contaminato da influenze tra le più disarmoniche che si possano immaginare – tra le loro ispirazioni, Lord e Miller hanno citato Leonardo da Vinci e le marionette della Royal De Luxe di Nantes, Say Anything di Cameron Crowe e la Cenerentola Disney, i Jet Propulsion Laboratory dove la Nasa costruisce le sue sonde spaziali, Point Break e Non è un paese per vecchi – ma pur sempre un romanzo di formazione.

Negli ultimi anni ci sono stati anche dei buoni, persino ottimi, film di supereroi. Il terzo volume dei Guardiani della galassia, per esempio. Spider-Man: No Way Home, anche. Film riusciti perché capaci di accompagnare i loro protagonisti lungo un arco narrativo che riguardasse loro e non il franchise, che li rendesse eroi impegnati in un percorso e non pedine di un piano industriale. È in questo che Across the Spider-Verse eccelle davvero e segna la differenza tra sé e il franchise. Nonostante gli inevitabili ammiccamenti all’ormai acquisito multiverso ragnesco, Across the Spider-Verse vive del suo e si mantiene da solo. E, pur senza sconfinare oltre il limite dell’ortodossia marveliana (anche questo Spider-Man, alla fine, ha la sua “scena del treno”, per esempio), riesce a fare quello che nessun film di supereroi è fin qui riuscito a fare: sfidare se stesso, i propri canoni, le proprie abitudini.

Uno dei temi fondamentali del film, dal punto di vista narrativo, è riassunto anch’esso in una domanda: ma perché? Il mito di Spider-Man è uno dei più tragici di tutto il fumetto supereroistico americano: zio Ben muore perché Peter impari che da grandi poteri derivano grandi responsabilità, Gwen Stacy muore perché l’Uomo Ragno quella lezione non l’ha imparata davvero. È andata sempre così: ogni iterazione di ogni supereroe comincia sempre alla stessa maniera, d’altronde. Ragni radioattivi, ladri nei vicoli, pianeti morenti che siano. Di fronte agli uomini e alle donne ragno di tutto il Creato che gli dicono che suo padre deve morire affinché lui diventi davvero Spider-Man, che il canon lo pretende, Miles è il primo che chiede: ma perché? Con un piglio assai Gen Z, Miles è il primo che chiede: ma perché questo supereroe deve essere per forza tragico in premessa, perché il no pain no gain, perché il sangue, il sudore e le lacrime? E in quel momento cala il silenzio in tutto il multiverso: nessuno che sappia rispondere a quel perché. Che, in fondo, è quello che succederebbe se davvero ci chiedessimo: ma perché un altro supereroe, identico a tutti gli altri supereroi? Across the Spider-Verse è la prova che quel perché non esiste e che il genere sopravviverà a se stesso solo superandosi. D’altronde, Lord e Miller questa risposta se la sono data ormai molto tempo fa. Quando cominciarono a lavorare a Un nuovo universo, la produzione – Sony – chiese ma perché non facciamo un film di supereroi come tutti gli atri? «Questa è una domanda stupida», fu la risposta sia di Lord che di Miller. E da lì, come spesso capita, è partita una discussione rilevante. Sulla saga che, forse, salverà i supereroi.