La geografia del cinema e dalla tv mondiale cambierà per sempre, dopo questo accordo da 83 miliardi di dollari.
Ogni giorno sembra più lontano il mito della mostra in galleria che fa la storia dell’arte. Forse l’ultima istanza è stata You (2007) di Urs Fischer alla Gavin Brown’s Enterprise di New York: l’enorme scavo nel pavimento, in contrasto con le pareti bianche immacolate, che sicuramente vi è capitato su Instagram. Ma sono passati diciotto anni, e comunque non si avvicina a eventi leggendari come la convivenza di tre giorni tra Joseph Beuys e un coyote alla René Block Gallery di SoHo (I Like America and America Likes Me, 1974) o l’esposizione dello spazio vuoto della Galerie Iris Clert di Parigi a opera di Yves Klein (L’esposition du Vide, 1958), con tanto di cocktail blu che tinsero di blu anche l’urina degli ospiti. Le gallerie Sonnabend, a Parigi e New York, sono tra quelle che hanno fatto la storia dell’arte. Non solo per aver portato i variopinti statunitensi della Pop Art nella seriosa Europa e, viceversa, gli strambi membri del Nouveau Réalisme e dell’Arte Povera nella scintillante Grande Mela, o per aver presentato al mondo il controverso ma imprescindibile Jeff Koons, ma soprattutto per aver accolto eventi artistici indelebili che oggi sembrano fantascienza. Come “Seedbed” (1972) di Vito Acconci, che si nascose in una nicchia sotto il pavimento masturbandosi e fantasticando udibilmente sui visitatori; o Jannis Kounellis che, nello stesso anno, si presentò in galleria mascherato e a cavallo, interpretando Apollo. O ancora la leggendaria mostra Made in Heaven (1991), con fotografie e sculture in scala 1:1 di Jeff Koons e Ilona Staller (Cicciolina) nell’atto di copulare.
Un racconto di più di cinquant’anni
Purtroppo o per fortuna, nella nuova Sonnabend Collection Mantova non ci sono onanisti nascosti, cavalli vivi o stampe pornografiche — anche se compaiono un collage di Acconci, un’installazione di Kounellis e una sala quasi interamente dedicata a Koons. È l’ultima di undici ambienti che raccolgono 94 opere in esposizione permanente e una mostra temporanea (Screen Tests di Andy Warhol), allestite nell’imponente salone del Palazzo della Ragione, nel cuore medievale della città, affacciato su Piazza delle Erbe e a due passi dalla Basilica di Sant’Andrea di Leon Battista Alberti. Tra affreschi del Duecento, un reticolo di pareti alte cinque metri ospita quella che sembra meno una collezione indice di un gusto personale e più una sintesi di tutta l’arte dal secondo dopoguerra a oggi: dal Pop di Lichtenstein al Neoespressionismo di Kiefer, dal concettuale di LeWitt al minimalismo di Judd, passando per le voci fuori dal coro di Nauman, Serra, Gilbert & George e Fischli & Weiss. La collezione cristallizza mezzo secolo di evoluzione viva e imprevedibile delle arti visive e di investimenti audaci che hanno ripagato. Quasi tutti gli artisti in mostra, molti dei quali scelti da Sonnabend quando erano ancora emergenti, sono oggi celeberrimi, e anche i meno noti sono significativi. Lo stesso vale per la mostra di Warhol: 21 video di quattro minuti ciascuno che ritraggono personaggi del suo Olimpo personale (tra cui Bob Dylan, Marcel Duchamp, Lou Reed e Susan Sontag) fermi di fronte alla cinepresa, nell’attesa che il rullino finisca. Uno dei suoi progetti meno noti e appariscenti, che rischia di passare in secondo piano davanti alla spettacolare collezione che lo circonda, che comprende tra l’altro le iconiche Brillo Boxes e un suo ritratto della collezionista Ileana Sonnabend. Va ricordato che fu proprio Ileana a intuire il potenziale della Pop Art e a offrire a Warhol una personale prima ancora del marito di allora, universalmente noto come il mentore della Pop Art, Leo Castelli.
Il mito della signora Sonnabend
Ileana, nata Schapira a Bucarest nel 1914, sposò Castelli nel 1933 e rimase con lui per oltre venticinque anni, prima di divorziare e sposare lo studioso Michael Sonnabend nel 1959. Aprì la sede parigina della galleria nel 1962 e quella newyorkese nel 1970, cedendo le redini al figlio adottivo Antonio Homem solo nel 2000, sette anni prima di spegnersi. È proprio grazie a lui e a Nina Castelli Sundell, figlia di Ileana e del primo marito, che esiste la Sonnabend Collection Foundation. Ma il motto di Ileana, ripetuto ogni qualvolta le si chiedeva di sé, era: “la mia vita non è importante”, e infatti la sua biografia è fatta soprattutto di aneddoti, dai quali trasuda la sua personalità. Come quando, in vacanza natalizia con Michael a Venezia, Acconci la chiamò per proporle la performance masturbatoria e lei gli rispose solo «you do what you have to do». O quando, incuriosita dai quadri specchianti di Pistoletto, acquistò l’intera sua personale torinese del 1963. O, ancora, quando ventenne chiese a Castelli un acquerello di Matisse come regalo di nozze. E poi la causa del 1989 del fotografo Art Rogers contro Koons e la Sonnabend Gallery per la somiglianza tra un suo scatto e la scultura “String of Puppies” (1989), venduta da Ileana per 367.000 dollari, con i quali dovette poi risarcire il fotografo. Il legame tra Koons e la gallerista sopravvisse comunque indenne, forse perché — disse l’artista ad Artforum nel 2003 — «il rapporto con Sonnabend è sempre stato una faccenda che riguardava l’arte, non il denaro o la vendita».
Una ciclica ripetizione
Osservando i suoi quattro lavori esposti, gli ultimi del percorso e tra i più recenti, è affascinante notare i parallelismi con le prime e più vecchie opere in mostra. “Infinity of Typewriters” (1962) di Arman, una cassa verticale di macchine da scrivere rotte, esempio di “riciclaggio poetico della realtà industriale” (disse Pierre Restany), trova un contraltare in “Teapot” (1979), una teiera nuova di zecca appesa in verticale a tubi luminosi, simbolo della nuova filosofia che al riciclo oppone il buttare e ricomprare. Pistoletto, con “Uomo seduto” (1963), specchio con sovrimposto un disegno fotorealistico, secondo Ulrich Loock «coinvolge direttamente lo spettatore mettendo a confronto l’immagine che cambia in tempo reale con quella di qualcosa del passato»; il che descrive alla perfezione anche “Gazing Ball (Standing Woman)” (2014) di Koons, che poggia una sfera specchiante su una replica di una scultura classica. La prima opera in mostra, “Black Shovel” (1962) di Jim Dine, è una pala sporca e pesante che penzola su un cumulo di polvere e rifiuti raccolti nello studio dell’artista; la penultima, “Dolphin” (2002) di Koons, è un delfino da spiaggia replicato in alluminio, leggerissimo all’apparenza, appeso al soffitto con catene gialle, a cui è agganciato un set di pentole lucide e perfette. La Pop Art di Warhol, Rosenquist, Oldenburg e Lichtenstein applicava per la prima volta all’arte la logica e l’estetica della merce; Koons, come scrisse Robert Pincus-Witten, «è consapevole che l’opera d’arte, nella cultura capitalista, sia inevitabilmente ridotta alla condizione di merce. Quello che lui pensa è che sia meglio far saltare del tutto il processo e cominciare direttamente dalla merce». Così la prima e l’ultima sala si sovrappongono alla perfezione, trasformando il ferro di cavallo del percorso in un cerchio. Il parallelismo è così impeccabile che probabilmente era l’intenzione dei curatori Antonio Homem e Mario Codognato; ma l’idea che l’arte contemporanea stessa effettui una sorta di eterno ritorno è più difficile da spiegare o accettare. Pensare che il suo destino sia quello di ripetersi all’infinito può mettere ansia; ma, nel frattempo, alla Sonnabend Collection Mantova ci si può godere un giro sulla giostra.
Immagine: Jeff Koons, “Wild Boy and Puppy”, 1988. In prestito dalla Sonnabend Collection Foundation © Jeff Koons
Anche stavolta c'è lui in cima alla classifica mondiale di Spotify, degna chiusura di un 2025 in cui ha realizzato uno dei dischi più apprezzati, messo la sua Porto Rico al centro del mondo della musica e, soprattutto, fatto imbestialire la destra americana.
