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Un abito può durare per sempre?

È la domanda alla base della nuova retrospettiva che inaugura oggi al Met Costume Institute, Sleeping Beauties: Reawakening Fashion.

di Anna Montagner

Ho sempre avuto un sentimento ambivalente verso i vestiti che non mi stavano più. Da un lato, la nostalgia dei ricordi che avevo legato a un determinato capo; dall’altro, la gioia nel pensare che quei capi avrebbero significato qualcosa anche per qualcun altro. Alcuni, però, li ho conservati con dedizione in una scatola – un paio di sneaker azzurre con la suola ormai bucata o un vestito bianco ricamato che apparteneva a mia nonna – come fossero elementi di un archivio di stile personale e formativo. Mentre leggo l’annuncio del tema del Met Gala 2024, che stasera inaugurerà con il consueto grande gala affollato di celebrity, non posso fare altro che ripensare a quella scatola. Con il titolo di Sleeping Beauties: Reawakening Fashion, quest’anno il Met Gala si propone di riportare in vita un archivio di stile, popolando i gradini del museo con capi storici. La retrospettiva, che aprirà al pubblico il prossimo 10 maggio, comprende infatti 250 capi e accessori degli ultimi quattro secoli, un museo di abiti e tessuti che diventano fotografie di un’epoca passata.

Il ruolo di un archivio è quello di contenere e custodire l’antico. Al suo interno, in un sistema di organizzazione più o meno decifrabile, ci sono le tracce del passato, le prove dalle quali trarre il senso dell’esistenza del presente. Gli archivi sono luoghi di preservazione, strumenti fondamentali per la narrazione storica. Eppure, ricorrere all’archiviazione nel campo della moda significa far fronte a una serie di incongruenze: la differenza d’uso degli oggetti in questione, il loro scopo, e l’intervallo di tempo che ricoprono. Nell’annuncio ufficiale del Costume Institute, Andrew Bolton, curatore del museo e della mostra, ha scritto che «La moda è una delle forme artistiche più emozionanti grazie alla sua connessione con il corpo». Come sottolinea Bolton, è difficile pensare a un abito senza un corpo, quello di chi lo indossa che, con le sue forme e personalità, lo porta in vita. L’identità, sia della persona che dell’abito, sembra quasi dipendente dalla relazione tra i due e serve a comunicare un senso di appartenenza nel mondo. Il valore stesso di un capo, infatti, è dato dal fatto di poter essere indossato e sfoggiato, e di adempiere così allo scopo per cui è stato creato.

Sorge spontaneo chiedersi che cosa accada quando questo contatto viene a mancare: per capirci, si può ancora parlare di abito anche quando questo appare solo dietro una vetrina? C’è una differenza tra un quadro di Monet e un vestito di Elisabetta II messo in mostra a un’esibizione? Forse la differenza c’era quando il vestito veniva ancora indossato e lo caratterizzava, prima di tutto, una qualità funzionale, ma dal momento in cui viene collocato all’interno di un museo, l’abito diventa esclusivamente un’opera d’arte e manifestazione storica. Questa domanda è centrale in ogni mostra di moda, ma in particolare in Sleeping Beauties: Reawakening Fashion, che esporrà al pubblico capi altresì inaccessibili all’uso pratico. Troppo fragili per essere indossati (anche da un manichino), questi abiti saranno visibili solo sotto una teca di vetro, una vera e propria bara di cristallo. Il loro scopo cambia, l’incontro con il corpo dell’indossatore diventa secondario, a volte proibitivo, eppure il prestigio rimane. Attraverso l’archivio, questi pezzi diventano testimoni di un tempo passato, acquistando valore iconografico e di costume.

«Ovviamente l’utilità e la praticità sono un aspetto della moda, ma lo sono anche le idee e i concetti», aveva detto Bolton in un’intervista al New York Times del 2016 in cui si analizzavano i diversi approcci di archiviazione nel campo della moda in America. All’epoca il curatore del Met sottolineava come l’identità dell’indossatore e il contesto in cui un capo era stato indossato fosse considerato secondario nel metodo di collezione e archiviazione dell’Institute. A fare la differenza, secondo Bolton, è invece il tessuto stesso, che diventa una rappresentazione di un preciso periodo storico. Una vera e propria idea tangibile. Se poi il tessuto in questione riesce a essere conservato senza alterazioni, questo aumenta la sua rarità e, di conseguenza, il suo valore.

Ad accrescere ulteriormente il prestigio di un pezzo d’archivio è anche l’intervallo di tempo dalla sua creazione al presente. Come spiegato da Archive.pdf, il concetto stesso di moda e di archiviazione seguono un rapporto valore/tempo opposto. Se da un lato c’è una ricerca continua del pezzo “all’ultima moda”, ovvero il più recente, dall’altro l’archivio va a scovare il pezzo più antico. Se la moda guarda avanti, nell’interesse delle generazioni future, l’archivio guarda indietro, a quello che è stato e che non è più. Ma per quanto contraddittoria, la loro relazione è riuscita negli ultimi anni a sviluppare un interesse per le origini storiche delle più grandi case di moda, confermato dall’ampio uso che degli abiti vintage fanno oggi tutte le celebrity. Come aveva spiegato Miuccia Prada nel 2019 su Gq Us, la finestra aperta sul passato dai brand non è un modo per ritornare alla proprie radici ma «per dichiarare chi si è» (ce lo aveva ribadito, insieme a Raf Simons, in occasione di Pradasphere II, inaugurata lo scorso dicembre a Shanghai).

L’archivio è dove risiede il patrimonio artistico e culturale di un’entità di moda, un luogo dove, nella ricerca delle proprie primitive intenzioni, si solleva inevitabilmente un desiderio di continuità. Musei e archivi sono realtà che nascono come strutture durature che tendono, almeno potenzialmente, al “per sempre”. In questo caso, però, sono portate a scontrarsi con la fugacità della moda, e non solo per la stagionalità dei capi. Tra gli abiti in mostra al Costume Institute, infatti, ci saranno una serie di tessuti che si stanno auto-deteriorando, senza possibilità di conservazione. Non è un caso che Loewe sia uno fra gli sponsor del Gala quest’anno: nel 2022, il marchio di proprietà di Lvmh aveva collaborato con la bio-designer Paula Ulargui Escalona alla creazione di una collezione “viva” e soggetta a scomparire. Per la mostra, il direttore creativo Jonathan Anderson [lo abbiamo intervistato qui, nda] aveva infatti creato un tessuto in cui sono state piantate avena, segale e grano. Il tessuto è letteralmente in crescita all’interno del museo, grazie a un sistema di irrigazione. Lo spettatore era perciò chiamato a contemplare la sua natura transitoria, fungendo da testimone al suo ciclo vitale: un esperimento che invita a riflettere sul deterioramento fisico della moda e forse anche sul desiderio umano, sempre maggiore, di trattenere, conservare, e ricordare il tempo passato. Siamo ancora capaci di lasciare andare?

Seguendo un metodo di collezione preciso e severo, l’archivio può offrire una contrapposizione a questo desiderio di possesso e abbondanza, trovando soluzione nell’unicità e preziosità dei capi esposti. Oltre ai ricchi spunti di riflessione – sul significato d’identità e la relazione dinamica tra passato, presente e futuro nella moda – l’archivio propone quindi di mettere in esame anche l’impatto reale dell’industria tessile sul pianeta. Iniziare a considerare il tessuto come unità vivente, come nel caso di Loewe, significa concentrarsi sulla sua reintroduzione in natura una volta raggiunta la fine del suo ciclo vitale. Significa accettare non solo la temporaneità dei capi d’abbigliamento, ma anche quella dell’archivio stesso, rivalutando così la nostra relazione con il tempo. Forse, una prospettiva che ci insegnerà ad apprezzare il presente, la fine di un tempo, e i suoi nuovi inizi.

In apertura: il “terrarium dress” della collezione Primavera Estate 2024 di Undercover. Ph. by Bertrand Guay/AFP via Getty Images