Cultura | Letteratura

Scrittura femminile non è una brutta parola

Che cosa hanno da dirci le grandi scrittrici italiane del passato al centro di una recente riscoperta? Ne abbiamo parlato con Sheila Heti, autrice di Maternità, ospite del primo Miu Miu Literary Club a Milano.

di Maria Luisa Tagariello

Da alcuni anni leggo quasi esclusivamente autrici donne. È iniziato tutto con Rachel Cusk, poi Sheila Heti, Sally Rooney, Elif Batuman, Ottessa Mosfegh. Ho recuperato Natalia Ginzburg, Goliarda Sapienza, Alba de Céspedes. In maniera dapprima casuale poi consapevole ho ricercato e letto con avidità romanzi e saggi scritti da donne. Non che non avessi mai letto autrici femminili prima, ma è stato come se per la prima volta, dopo anni di letture e di studi in letteratura, mi accorgessi dell’esistenza di una scrittura specificamente femminile. A teorizzarla è Rachel Cusk in Le sorelle di Shakespeare, saggio incluso nella raccolta Coventry appena uscito in Italia per Einaudi: «Un libro non è un esempio di “scrittura femminile” solo perché è scritto da una donna. Può diventare “scrittura femminile” quando non avrebbe potuto essere scritto da un uomo».

L’ho domandato alla scrittrice canadese Sheila Heti, un anno fa alla presentazione del suo Colore Puro, se per lei fosse stato lo stesso, se anche lei come me avesse dato per scontato il punto di vista maschile come punto di vista universale. Mi ha risposto di sì, che c’è così tanto di femminile da esplorare, così tanto di femminile da dire, che vale la pena, ora, dedicare del tempo esclusivo a loro: le scrittrici. Ho incontrato di nuovo Heti in occasione del Miu Miu Literary Club, che si è tenuto al Circolo Filologico a Milano, il 17 e 18 aprile, un momento di confronto per riscoprire grandi autrici italiane del passato insieme alle più importanti voci femminili del presente – oltre a Heti, anche Jhumpa Lahiri e Claudia Durastanti, tra le altre.

Che cosa significa «scrittura femminile» oggi? È un concetto che attiene solo al contenuto o anche alla forma?
Molto è stato scritto dagli uomini. La forma viene ereditata, ed è molto difficile allontanarsi da quello che ci hanno insegnato, da quello che diamo per scontato sia la letteratura. Ci sono donne che ci stanno provando, penso che Rachel Cusk sia l’esempio perfetto di una scrittrice che sta cercando di creare una nuova forma. Ma, affinché il tuo libro abbia una forma unica, affinché riguardi argomenti di cui non è mai stato scritto prima, tutto nella tua mente deve essere strappato via, demolito e ricostruito in modo nuovo, e farlo è quasi impossibile per qualunque essere umano. Perché significa liberarsi del mondo per come lo conosci, e la tua scrittura riflette la tua visione del mondo, e la tua visione del mondo è in gran parte frutto di quello che ti insegnano. È quindi una lotta che dura tutta la vita, quella per riuscire a vedere la realtà con i propri occhi. Ogni scrittrice, che sia autentica e sincera, lotta per definire la propria realtà in un modo nuovo. In termini di storia della letteratura femminile, ogni generazione fa piccoli progressi, perché c’è così tanto da smontare.

In Una stanza tutta per sé Virginia Woolf sosteneva che la donna del futuro avrebbe concepito un proprio tipo di frase, di forma, e l’avrebbe usata per scrivere della propria realtà. Quel futuro è arrivato?
Il futuro è sempre in arrivo. Ma non arriva mai del tutto.

Nei libri di testo e nei programmi universitari italiani, le voci femminili sono marginali, quasi assenti. Quali pensi che siano le conseguenze di questa rimozione storica? Qual è la tua esperienza personale?
In Canada è diverso, perché alcune delle voci più importanti nella letteratura contemporanea sono donne, Alice Munro, Margaret Atwood, Margaret Laurence. Le scrittrici più venerate, per la mia generazione e quella precedente, sono state donne. Ma, ovviamente, se le scrittrici vengono marginalizzate, si perde la visione completa del mondo. Leggere soltanto scrittori uomini, significa non vedere la realtà nella sua interezza, perché la letteratura ti spiega che cos’è il mondo, e se le donne non ne fanno parte, se non fanno parte del canone, allora non avrai un quadro completo della realtà.

Miu Miu Literary Club. Foto di Valerio Nico

Quali autrici hanno avuto per te un valore formativo?
Jane Bowles, autrice di Two serious Ladies. Sono stata molto fortunata a scoprirla quando avevo vent’anni, perché allora nessuno ne parlava. Come diceva Jhumpa Lahiri prima [durante l’incontro organizzato da Miu Miu, N.d.r.], ogni grande opera letteraria è tale perché è scritta nello specifico linguaggio del suo autore o autrice, e suona quasi come se fosse una traduzione, perché è scritta in un linguaggio che ancora non conosciamo. È quello che ho provato leggendo Jane Bowles, non mi ero mai confrontata con quello specifico linguaggio prima. 

È così recente l’interesse da parte dell’editoria internazionale verso il romanzo letterario femminile, che è inevitabile domandarsi: cosa è cambiato? Quali condizioni storiche, sociali, culturali hanno permesso l’emergere di nomi nuovi e la riscoperta di scrittrici del passato cadute nell’oblio?
Sono più numerose, oggi, le donne critiche letterarie, ci sono più giornaliste, più professoresse. E penso che tutte insieme queste persone portino consapevolezza, perché sono curiose. Penso che siano le donne in queste professioni a determinare il cambiamento.

In Italia stiamo riscoprendo autrici come Alba de Céspedes e Sibilla Aleramo (le cui opere, Quaderno Proibito e Una donna, pubblicate per la prima volta rispettivamente nel 1952 e nel 1906, erano al centro dei due incontri del club letterario promosso da Miu Miu). La stessa cosa sta accadendo ad altre grandi scrittrici del Novecento – stiamo assistendo a un vero e proprio revival di Natalia Ginzburg – che meritano di essere rilette, ricollocate all’interno di un canone internazionale. Le conoscevi prima di essere invitata al Miu Miu Literary Club?
Conoscevo il libro di Alba de Céspedes, perché me lo aveva mandato l’editore, ma non Una donna di Sibilla Aleramo, un libro incredibile che mi ha completamente travolta. Ho detto a tutti quelli che conosco: dovete leggerlo! È straordinaria la potenza di quel libro.

Sta succedendo qualcosa di simile in Canada e negli Stati Uniti? Esistono esempi di scrittrici di lingua inglese dimenticate e ora riscoperte?
Penso che stia succedendo in molti paesi. Sta accadendo con Jane Bowles, che ho citato prima, per la quale mi hanno chiesto di scrivere l’introduzione a una nuova edizione. Piano piano queste opere dimenticate vengono ripubblicate e tradotte. C’è un altro libro che ho scoperto un paio di anni fa, The Wall, dell’autrice austriaca Marlen Haushofer [La parete, in Italia edito da E/O, N.d.r.], pubblicato per la prima volta nel 1963. Leggendolo ho provato di nuovo quella sensazione: perché non ho mai sentito parlare di questo libro prima? Come facevo a non conoscere questa autrice? È, a mio parere, una delle più grandi opere del XX secolo.

Che cosa ci dicono queste scrittrici del passato?
Ci dicono cosa pensavano, come erano le loro vite, come lottavano contro il mondo, un mondo che non era così diverso dal nostro, solo più intenso, la loro era la forma più pura di ciò contro cui noi continuiamo a lottare oggi.

Ciò che compromette le donne – matrimonio, figli, vita domestica – compromette ancora di più la scrittura, sostiene Cusk nel saggio Le sorelle di Shakespeare. Tu, pur non avendo figli, hai dedicato un libro intero alla maternità (Maternità, pubblicato in Italia da Sellerio). Sembra che si tratti di tematiche con le quali qualunque donna, a prescindere dalla propria situazione, si trovi prima o poi a fare i conti.
Dalle donne ci si aspetta ancora che facciano determinate scelte, che intraprendano determinati percorsi nella propria vita. Non abbiamo ancora una vera e prorpia libertà di scelta. La libertà è più vicina di quanto non lo fosse quando è stato scritto Quaderno proibito, molto più vicina rispetto all’epoca di Una donna, ma ancora non l’abbiamo conquistata. Penso che ogni generazione faccia un passo avanti, penso alle ragazze di 20 anni più giovani di me, non si sforzano così tanto di essere monogame, alcune non si identificano come donne… ma c’è ancora così tanto lavoro da fare.

Alba De Céspedes è lontana dal suo personaggio, Valeria. Lei non è una casalinga, ma un’intellettuale, quando pubblica Quaderno proibito ha già pubblicato Nessuno torna indietro, tradotto in 24 lingue. Eppure, nonostante l’enorme successo di pubblico, faticò ad avere altro riconoscimento che non fosse quello di scrittrice che discorre, da donna, di donne. Quando la scrittura «da donne» è diventata una scrittura per tutti?
Non lo è ancora diventata. Me ne accorgo quando sono in tour per presentare un libro, quando partecipo a un reading: il pubblico è quasi interamente femminile.

Questo genere di eventi, come questo organizzato da Miu Miu, sono importanti per acquisire consapevolezza.
È grazie a questo evento che stiamo parlando di queste scrittrici. Non le avrei lette se non mi avessero invitato qui. E credo che sia così anche per molte altre persone che sono qui oggi, che grazie a questo incontro hanno scoperto scrittrici che non conoscevano. Penso che sia una cosa bellissima. 

Un’ultima domanda che non riguarda la letteratura: qual è il tuo rapporto con la moda?
Ho scritto un libro, Women in Clothes, circa 10 anni fa, insieme a Heidi Julavits e Leanne Shapton, che raccoglieva le interviste di 639 donne di tutto il mondo sul perché indossano quello che indossano. Il mio editore lo sta ripubblicando adesso. Quindi la moda è un argomento su cui ho riflettuto, ma non posso permettermela [ride]. Diciamo che sono molto fortunata a indossare un paio di scarpe Miu Miu oggi.

In copertina: Sheila Heti, foto di Max Bietti