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03:31 martedì 25 novembre 2025
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Uomini vulnerabili alle sfilate di Milano

Semplificazione, ritorno all’intimità domestica e qualche accenno di ribellione: come sono andate le collezioni maschili, da Prada a JW Anderson fino a Magliano, passando per Gucci, Dolce & Gabbana ed Emporio Armani.

17 Gennaio 2023

Che lo streetwear abbia lasciato un vuoto sulle passerelle maschili (solo su quelle, perché nella vita vera tutto è rimasto streetwear) era chiaro già da tempo, ma è questa la stagione, probabilmente, in cui più quel vuoto si delinea come una terra di mezzo in cui si cerca un immaginario alternativo, un’altra idea del vestire, che abbia ugualmente a che fare con la vita delle persone. La creatività che non riguarda la vita delle persone è piuttosto inutile, ha detto Miuccia Prada in una recente intervista a Vogue, i vestiti devono parlare di chi li indossa e se non ci riescono è un problema. Non è un caso, allora, che l’ultima collezione fosse intitolata “Let’s talk about clothes”, quasi un saggio per «esplorare i fondamenti della moda» e sostenerne «il senso ininterrotto, il valore e il significato che ancora oggi detiene», come spiega la sintetica nota ufficiale. Sin dall’inizio della loro collaborazione la signora Prada e Raf Simons, che lo scorso novembre ha deciso di chiudere il brand che porta il suo nome, ragionano sugli essenziali del guardaroba e dei loro rispettivi archivi: per aprirsi l’uno all’altro, probabilmente, ma soprattutto per aprirsi a un pubblico sempre più ampio e sempre più nuovo.

Prada Autunno Inverno 2023. Photo courtesy of Prada

Così la sfilata di domenica parlava proprio di vestiti, con la sua apertura a effetto di abiti grigi precisissimi, le sue silhouette matematiche eppure vezzose, con i cardigan che lasciavano il petto scoperto e i colletti giustapposti con ironia sulla pelle nuda, con i bomber-piumini – nel senso del piumino da letto, che richiamava il cuscino dell’invito – e i contrasti tra i colori tipici di Prada, acidi e morbidi allo stesso tempo, fino alle borse con la borraccia incorporata (piacerà a TikTok, dove ogni mese una borraccia diventa virale). Sul finale della sfilata, ci sono le tuniche-abito da portare sui pantaloni nelle sfumature monocromatiche del suede, richiamo di un’eleganza asciutta anni Novanta ma anche di una quotidianità non occidentale: è la parte preziosissima della collezione. Parlare di vestiti e parlare alle persone: da Prada ci riescono grazie a una strategia sul prodotto che si è dimostrata vincente, soprattutto sui mercati asiatici, ma anche alla selezione dei testimonial.

Tra i primi brand a portare a Milano idol coreani e attori delle fortunate serie tv thailandesi (questa volta: tutti gli Enhypen e l’amatissimo Metawin Opas-iamkajorn), la signora e Raf hanno creato più o meno volontariamente un altro rito: non solo la folla fuori dallo show, come se ne vedono solo a Parigi ma forse anche di più, ma anche il giro nel negozio in Galleria, dove gli ospiti fanno shopping, e quello in Fondazione: tutti contenuti perfetti proprio per TikTok, a metà tra la paparazzata e il vlog. E a proposito di celebrity, quest’anno è stato White Lotus a dominare le prime file, con Will Sharpe da Emporio Armani, Adam DiMarco sempre da Prada, Sabrina Impacciatore e Simona Tabasco da JW Anderson e, non ultimo, Theo James da Giorgio Armani. Ma ci sono star anche tra i modelli diventati TikToker, come Calum Harper, alla sua prima volta da Gucci, Kit Price da Dolce & Gabbana e Mathieu Simoneau, che ha sfilato per Emporio Armani e che è stato uno dei primi a inventarsi il format del modello che parla su TikTok di com’è, nella realtà, fare il modello.

La folla di fan c’era, poi, c’era anche da Gucci, principalmente per Kai degli Exo, ma l’atmosfera festante della strada era diversa da quella che si respirava all’interno del Gucci Hub, dove è andata in scena la prima collezione senza Alessandro Michele, tra curiosità e senso di sospensione. Nello spazio ridisegnato per l’occasione, con il palcoscenico centrale che ospitava il live dei Ceramic Dog che ha accompagnato la sfilata, il percorso circolare compiuto dai modelli richiamava «il motore collettivo della comunità creativa al centro di Gucci» mentre la collezione, affidata al team interno, aveva come tema centrale l’improvvisazione come metodo e come strumento del processo creativo, una scelta giusta per un momento oggettivamente difficile. Non c’è più la stratificazione di significati e storie a cui ci aveva abituato Michele, com’era lecito aspettarsi, e il ripescaggio dall’archivio Gucci, che spazia dall’abbigliamento sportivo degli anni Ottanta ai capi da motociclista dei primi anni 2000 fino ai classici di Tom Ford, prepara con intelligenza la strada per il nuovo corso. Un nuovo corso che riparte dagli essenziali del marchio, perché è così che funziona il linguaggio della moda, che tutto assorbe e tutto dimentica.

Gucci Autunno Inverno 2023. Photo courtesy of Gucci

La semplificazione, intesa nel miglior senso del termine, è stata d’altronde uno dei temi ricorrenti di queste sfilate: persino da Dolce & Gabbana, grazie anche a un’operazione di editing e styling sulla collezione che ha restituito freschezza alla sfilata, si è tornati ai fondamentali, al nero avvolgente e alle silhouette impeccabili che evidenziano la vita degli uomini, muscolosi il giusto, ammiccanti quello che serve. Ha guardato al suo archivio anche Giorgio Armani, che ha concluso la sfilata del suo marchio con una serie di coppie vestite per una ipotetica, ed elegantissima, serata di gala in un palazzo di Milano, mentre da Emporio ha mandato in passerella una collezione che riprendeva il totem dell’uomo aviatore, o meglio ancora, dell’uomo in volo. Una licenza poetica che, nell’anno che segue lo stratosferico successo di Top Gun: Maverick – che ha riportato quel prototipo maschile nell’immaginario collettivo – ci ricorda perché Giorgio Armani è Giorgio Armani: scacciato lo spettro della pura celebrazione militaristica, gli uomini di Emporio Armani incedono morbidi, con le loro silhouette definite, e più che pronti ad attaccare qualcuno, sembrano pronti a esplorare, conoscere. Un grande sollievo.

Una certa vulnerabilità attraversava anche la seconda collezione di Marco De Vincenzo da Etro, dove il designer sembra aver trovato la sua storia all’interno del marchio. Dopo la difficile prima volta di settembre, qui De Vincenzo è sembrato finalmente quello che conosciamo, ovvero uno dei designer più attenti della sua generazione. Ispirata a una domesticità fatta di tessuti d’archivio, come quelli appesi nella venue dello show e che ricordano tende, camicie e tovaglie, la collezione giocava con motivi e texture, tra short e top in teddy e la coperta in velluto jacquard il cui motivo è riprodotto su giacche e cappotti.

Magliano Autunno Inverno 2023. Photo courtesy of Magliano

Massimo Giorgetti da MSGM è invece tornato all’università e negli spazi del Politecnico: nella collezione si mescolano formale e informale, righe e stampe, l’Attimo fuggente e i CCCP che fanno da colonna sonora. Erano decisamente più arrabbiati, invece, i ragazzi sulla passerella di Jordanluca, il brand lanciato del 2019 Jordan Bowen e Luca Marchetto che è diventato in poco tempo uno degli appuntamenti interessanti della moda uomo a Milano. Un guardaroba smontato e riassemblato prendendo spunto dalla realtà digitale in cui siamo immersi – come i dolcevita elasticizzati la cui stampa a quadratini rimanda agli schermi del telefono –  e una collaborazione con Lonsdale, sulla cui T-shirt campeggia la scritta “Harder, Faster”, un invito-monito al movimento continuo, quello a cui ci costringe la società. Stessa preoccupazione, la crisi di senso contemporanea, differente risposta per Jonathan Anderson, che per la sua seconda sfilata a Milano torna, con ironia da troll, all’inizio di tutto: due modelli in mutande aprono infatti lo show reggendo altrettanti rotoli di tessuto, mentre altri due abbracciano un cuscino, un esercizio di provocazione che però punta all’accessorio virale, ovvero le ciabatte Wellipets, gli stivali per la pioggia che Diana aveva messo ai suoi figli e che sono poi diventati gli stivali per la pioggia di tutti bambini del Regno Unito. Peccato che oggi i due fratelli si odino.

Infine c’è Luchino Magliano, che dopo l’accordo con Underscore District, come ha raccontato su Vogue Business, entra in una fase di consolidamento del marchio che era necessaria. Che sia il più bravo lo diciamo da tempo, ormai, e fa piacere vedere la stampa e gli influencer stranieri scoprirlo e sostenerlo ogni stagione di più, perché Luchino Magliano rappresenta davvero un altro, nuovo, capitolo del fare vestiti in Italia. L’utilizzo delle tecniche di upcycling, il casting di corpi differenti che non sembrano mai fuori luogo, la performance che è ogni sfilata, le sue radici culturali nel momento speciale che era la Bologna degli anni Ottanta e le sue idee su come si vestono le persone: lui che si definisce «italiano per antonomasia» può raccontare davvero un’altra volta la storia degli abiti fatti in questo Paese, del gusto e dello stile italiano, e non vediamo l’ora di sentire tutto quello che ha da dire.

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