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Internet può aiutarci a scrivere meglio?

La tecnologia farà bene agli scrittori: è la tesi del "manuale di scrittura non creativa" di Kenneth Goldsmith, l'autore di Perdere tempo su internet.

di Gilles Nicoli

All’inizio di CTRL+C, CTRL+V – Scrittura non creativa, pubblicato da Nero Editions a luglio, Kenneth Goldsmith, artista, poeta, saggista, eccentrico, provocatore, nonché docente alla Penn University, propone un’idea che appare esemplificativa di tutto il suo pensiero. Internet, sostiene Goldsmith, sta avendo sulla scrittura lo stesso impatto che la fotografia ebbe sulla pittura. Ci troviamo immersi in una proliferazione di testi che rimanda all’epoca in cui le immagini iniziarono a essere catturabili all’istante e replicabili all’infinito.

Questo cambiamento non lo si può immaginare privo di conseguenze. La pittura reagì alla fotografia divenendo più astratta, andando a cercare immagini che nessuna macchina potesse ottenere. La scrittura potrebbe cambiare invece proprio venendo a patti con le macchine. «Le parole potrebbero benissimo essere scritte non solo per essere lette, ma anche per essere condivise, spostate e manipolate, a volte da umani, più spesso da macchine, dandoci una straordinaria opportunità di riconsiderare l’idea stessa di scrittura e di ripensare il ruolo dello scrittore. Se le tradizionali idee sulla scrittura si concentrano sull’”originalità” e la “creatività”, l’ambiente digitale incoraggia nuove abilità, come la “manipolazione” e l’”organizzazione” dei cumuli di linguaggio già esistente e in continuo aumento”», suggerisce Goldsmith.

Uno dei progetti più affascinanti presentati nel libro è quello dell’artista britannico  Simon Morris, che ha riscritto Sulla Strada di Jack Kerouac su Blogspot. Morris, che non aveva mai letto il romanzo, ha pubblicato un post per ogni pagina della sua edizione cartacea, se necessario interrompendo le frasi a metà, pensando che concentrarsi su porzioni di testo così piccole gli avrebbe permesso di immergersi nel processo creativo dello scrittore americano: il blog si intitola non a caso “getting inside Jack Kerouac’s head”. Le parole dei suoi post, cioè le parole di Kerouac, in realtà non sono nemmeno pensate per essere lette, ma sono esse stesse il risultato e la testimonianza di un lavoro di lettura e di comprensione di un testo.

Se questa idea di Goldsmith sulla scrittura appare, come anticipato prima, esemplificativa di tutto il suo pensiero, è per via del ruolo che vi riveste il web: pochi come lui – stiamo pur sempre parlando della persona che ha proposto di stampare l’internet – hanno portato avanti riflessioni così feconde sugli effetti dell’avvento della rete. Sotto questo profilo CTRL+C, CTRL+V andrebbe letto tenendo ben presente una sua opera successiva – o precedente, seguendo la cronologia di pubblicazione italiana – intitolata Perdere tempo su internet, in cui Goldsmith racconta una serie di esperimenti, volti a cogliere la vera sostanza di questo nuovo grado virtuale dell’esistenza, condotti insieme ai suoi studenti.

Uno dei più curiosi si tiene durante un laboratorio a Berlino, quando viene fuori la proposta di condividere le password. L’opinione dei partecipanti è unanime: non se ne parla neppure. Si concorda invece di spiegare secondo quali criteri ciascuno crea le proprie, e si scopre una cosa interessante: si può sapere tanto di una persona solo dal modo in cui costruisce le sue password. Quelle di Goldsmith, rivela l’autore, finiscono sempre con le ultime quattro cifre dei suoi precedenti numeri di telefono; una donna afferma di inserire sempre il numero 410, perché alle 4 e 10 del pomeriggio iniziava alla televisione il suo programma preferito quando era bambina. Cercando su internet si trovano le tecniche più stravaganti: date, nomi di scrittori e titoli di canzoni, lettere iniziali di ogni parola di cui si compone una frase difficile da dimenticare.

Basterebbero le password, dunque, per realizzare di ognuno una biografia brevissima, simile a quelle con cui si aprono le voci su Wikipedia. Per una biografia più corposa, che si potrebbe stampare in più volumi, sarebbe invece sufficiente utilizzare la cronologia del browser: ogni volta che apriamo Chrome o Firefox, infatti, diamo il via sia a una sessione di navigazione su internet sia a un nuovo capitolo di un grandioso progetto di scrittura automatica, in cui viene registrato ogni nostro pensiero, desiderio o interesse nei confronti di cose e persone. La cronologia di un browser è più affidabile della memoria, e appare anche più accurata e obiettiva rispetto alle autobiografie che curiamo aggiornando i nostri profili su Twitter o Facebook.

Il tema delle nuove forme di scrittura che emergono dall’interazione tra esseri umani e macchine può dunque essere indagato anche sotto questo aspetto, legato ancora una volta alle nostre attività online. Perché è vero, perdiamo tutti una gran quantità di tempo su internet, ma, come argomenta Goldsmith, proponendo paralleli tanto azzardati quanto indovinati tra le avanguardie artistiche del secolo scorso e il nostro rapporto con la tecnologia, non si tratta davvero, o almeno non solo, di tempo perso: mentre cambiano le nostre abitudini si rinnovano e si attualizzano vecchie intuizioni.

Kenneth Goldsmith fotografato durante una visita a Frieze New York (Randall’s Island, 11 maggio 2014, foto di Michael Stewart/Getty Images)

Nella fascinazione dei surrealisti per l’idea di dormire in pubblico, ad esempio, possiamo trovare un’anticipazione del nostro abitare contemporaneamente uno spazio fisico, come un bar o la carrozza di un treno, e un altrove non più onirico ma virtuale; nell’invenzione linguistica di Duchamp, che parlava di “infrasottile” senza darne alcuna definizione, ma suggerendone il significato attraverso esempi quali il calore lasciato su una sedia da qualcuno che vi sedeva fino a un momento prima, non fatichiamo a riconoscere la perfetta descrizione della nostra ormai acquisita facoltà di mescolare presenza e assenza tra realtà e web.

Il numero di falsi assunti che Perdere tempo su internet smonta o pone sotto una nuova luce è ragguardevole. Si ritiene che la tecnologia ci renda più isolati, ma forse in realtà ci permette di portare avanti conversazioni significative anche in quelli che altrimenti sarebbero con ogni probabilità tempi morti, non contesti in cui conoscere nuove persone. Si incolpa la tecnologia del fatto che leggiamo sempre meno, ma a ben vedere proprio per mezzo dei nostri schermi passiamo ore di fronte alle opinioni e alle storie di amici e perfetti sconosciuti sulle chat così come sui social network.

Si afferma che il multitasking ci fa diventare sempre più distratti e incapaci di concentrazione, ma la concentrazione è realmente uno stato mentale preferibile in assoluto, o sarebbe meglio dire che dipende dalle situazioni e dalle circostanze? La concentrazione ad esempio non ci consente di essere curiosi, e la stessa distrazione si potrebbe definire come un particolare tipo di concentrazione, caratterizzato da un’immediata disponibilità alla ricezione di stimoli concorrenti. Si conclude, più in generale, che la tecnologia ci disumanizza, ma l’affezione che proviamo nei confronti dei contenuti dei nostri dispositivi elettronici dice esattamente il contrario. I libri di Goldsmith ci portano piuttosto a scoprire come la tecnologia ci offra innumerevoli e ancora inesplorate possibilità di espressione e di conoscenza.