È il più “schivo” dei musicisti italiani, evita l'autopromozione e limita moltissimo anche i live. E nonostante questo, il suo Una lunghissima ombra è stato uno dei dischi più attesi del 2025. Lo abbiamo intervistato nel nuovo numero di Rivista Studio, appena uscito.
Questo articolo tratto dal nuovo numero di Rivista Studio, intitolato La vita vera Istruzioni per l’uso. Lo trovate in edicola, nelle librerie selezionate oppure, più semplicemente, sul nostro store online.
La storia della Rivoluzione industriale non sta tutta nelle poche pagine che siamo soliti leggere alle scuole medie e ripassare in quelle superiori. C’è invece tutta una parte – non una versione – che non è raccontata in quei libri di testo: è la resistenza alla Rivoluzione, fatta di rivolte operaie, di telai distrutti, di fabbriche in fiamme nelle notti dell’Inghilterra del nord. L’automazione della filatura e della tessitura, la grande molla che fece accelerare il mondo, nasconde nell’ombra migliaia di bambini di sei, sette, otto anni costretti a lavorare quattordici ore al giorno, vestiti con stracci e nutriti di patate. Alienati per sempre o morti in poco tempo. Il baccano costante dei pedali, delle navette e dei licci copre quello dei processi sommari a chi si ribellava, con i padroni al banco dei testimoni e i testimoni fuori dalle aule. Operai impiccati a diciotto anni. Se il lato violento e sporco di un cambio paradigmatico avvenuto tra la fine del 1700 e l’inizio del 1800 ci appare, ormai, lontano nel tempo e lontano da noi, è il caso di pensarci meglio. A che cos’era la tecnologia ieri, a che cos’è oggi. A che cos’era l’automazione ieri, a che cosa sarà domani. A quanto è vicino il Nottinghamshire alla Silicon Valley.
Secondo la compagnia Layoff.fyi, che è indipendente e si occupa di tener conto dei licenziamenti negli Stati Uniti, le diverse aziende del ramo tecnologico statunitense (che sono 550) hanno licenziato 150 mila persone nel 2024, e il 2025 sta tenendo, anche lui, un ottimo ritmo. Soltanto a febbraio, per esempio, sono stati registrati 16.084 tagli. A fine ottobre 2025 Amazon ha annunciato che avrebbe lasciato a casa circa 14 mila lavoratrici e lavoratori, e il comunicato interno con cui annunciava i licenziamenti dice che «le riduzioni» sarebbero servite a «ridurre la burocrazia». Infine, dice anche: «Alcuni potrebbero chiedersi perché, se la compagnia sta andando così bene, stiamo riducendo il personale. Quello che dobbiamo ricordare è che il mondo sta cambiando rapidamente. Questa generazione di intelligenza artificiale è la tecnologia più trasformativa che abbiamo visto dall’avvento di internet, e sta permettendo alle aziende di innovare molto più velocemente di prima». Otto giorni prima che Amazon definisse “innovazione” il licenziamento di oltre diecimila esseri umani, avevo iniziato a leggere un saggio del giornalista tecnologico americano Brian Merchant, appena uscito in Italia e che Wired ha definito «il libro più importante da leggere per capire l’avvento dell’intelligenza artificiale». Si chiama Sangue nelle macchine e rilegge il luddismo e le rivolte contro i telai meccanici del 1800 alla luce dell’avvento delle intelligenze artificiali.
Chi erano davvero i luddisti
Anche il luddismo lo studiamo, solitamente, sui banchi di scuola. Il contesto viene dato sommariamente: l’inizio della Rivoluzione industriale, i primi decenni del secolo milleottocento; alcune invenzioni stanno per cambiare il mondo, portandolo fuori dal Medioevo una volta per tutte; la grande accelerazione sta cominciando; non tutti sono d’accordo, però, e c’è ancora una futile, pittoresca resistenza al progresso inarrestabile e luminoso. La società in cui viviamo, che ha prodotto il sistema scolastico in cui veniamo nutriti, è caratterizzata da un diffuso pregiudizio verso il Medioevo e una fiducia acritica verso il concetto di progresso e di tecnologia, al punto da somigliare – al contrario, paradossalmente, di ciò che insegnerebbe l’Illuminismo da cui tutto prende vita – a una devozione religiosa. In questo contesto culturale, i luddisti sono stati generalmente dipinti come degli eccentrici e tecnofobi. Violenti primitivi che prendevano a mazzate i nuovi telai meccanici, spaventati dall’innovazione. Ma i luddisti non erano affatto regressisti: avevano invece capito benissimo quale sarebbe stato l’impatto di una determinata tecnologia sulla loro vita e su quella della comunità che abitavano, e reagirono di conseguenza. Capivano bene anche quale fosse il nemico: non le macchine in sé, come se fossero dotate di un intrinseco spirito malvagio, ma i proprietari delle fabbriche che intendevano utilizzarle per aumentare i profitti, assottigliare le già striminzite paghe, distruggere il tessuto sociale comunitario che da secoli si reggeva intorno alla distribuzione orizzontale del lavoro di filatura e tessitura, e alla equa divisione di compiti e paghe.
Ned Ludd non era davvero un condottiero, quanto piuttosto un personaggio di fantasia creato allo scopo di unire i ribelli. Anche Thomas Pynchon ha scritto di lui, in un saggio del 1984 chiamato Is It OK to Be a Luddite?. Scriveva, Pynchon, che King Ludd, come veniva spesso chiamato, era un archetipo che è sempre esistito. Di lì a poco la letteratura vedrà la nascita di un’altra figura archetipica con la stessa funzione, e cioè Frankenstein (il mostro), e un secolo dopo sarà il turno di King Kong. Rappresentano guerrieri: anarchici, arrabbiati e violenti, ma moralmente puri e giusti.
La sorprendente nuova considerazione del luddismo, oggi, non è soltanto una questione che appassiona accademici o sindacalisti, perché quello dell’indebolimento del sistema sociale e comunitario è un effetto tra i più evidenti e profondi della rivoluzione digitale. Anche per questo, nel dicembre 2022, un reportage del New York Times andò virale: descriveva un gruppo di adolescenti, in un liceo di New York, che aveva creato un “Luddite Club”, una piccola società luddista. I giovani luddisti non possedevano smartphone né social network, e si ritrovavano con cadenza regolare a Prospect Park, un grande parco di Brooklyn, per leggere insieme, o disegnare, o non fare niente – forse l’atto più ribelle di tutti. Due anni dopo lo stesso giornalista, Alex Vadukul, è andato a rintracciare i giovani luddisti non più al liceo ma ormai all’università. Il principio luddista persisteva, e si faceva semmai più complesso e maturo, e meno incendiario. Il Luddite Club della Temple University a Philadelphia, portato avanti da uno degli ex liceali di New York, non vuole per esempio bandire gli smartphone, ma promuovere «un utilizzo consapevole della tecnologia». Il bisogno di una vita meno connessa, libera dalla richiesta di performatività dei social network, è sempre più diffuso, e lo si percepisce anche guardando alla fortuna delle applicazioni che promettono di bloccare temporaneamente l’accesso a quegli stessi social. Tra lo sfruttamento del lavoro ottocentesco e quello dell’attenzione del XXI secolo c’è un legame forte, come diceva Anna Longo in un passaggio del saggio Le paludi della piattaforma, scritto da Geert Lovink nel 2022 e uscito in Italia per NERO: «Una volta si sfruttava la forza del corpo per produrre beni; poi si è cominciato a sfruttare l’energia del desiderio per consumare beni; ora si sfrutta la creatività per produrre il sé come un bene».
Dal Nottinghamshire alla Silicon Valley
Sono due i modi in cui le nuove aziende tecnologiche impatteranno sulla vita di milioni di lavoratori e lavoratrici con qualcosa di simile a ciò che successe a inizio Ottocento. Il più evidente è che l’automazione eliminerà centinaia di migliaia di posti di lavoro, come scrivevo all’inizio. Quei lavori non saranno soltanto persi per essere replicati altrove. Saranno eliminati, e affidati alle macchine. Questo è un problema culturale, e non solo economico. Come scrive Brian Merchant in Sangue nelle macchine, «gran parte della nostra identità è legata al nostro lavoro, persino a un lavoro che è spesso precario, subordinato a supervisori o ai capricci delle tecnologie possedute o controllate da qualcun altro». Rincarano la dose Anne Case e Angus Deaton, sociologi che hanno firmato il saggio Morti per disperazione: «Il lavoro non è solo fonte di reddito; è alla base dei riti, degli usi e delle routine quotidiane della classe operaia. La perdita economica non è l’unica né la principale causa della disperazione, che viene alimentata piuttosto dalla perdita di significato, di dignità, di orgoglio e di rispetto di sé che accompagna la rinuncia al matrimonio e la dissoluzione della comunità». E lo stesso punto è fondamentale anche per il podcaster britannico Nick Hilton, che dirige un programma radio chiamato “The Ned Ludd Radio Hour”. La lotta al dominio algoritmico, dice, non è anti-progresso: «Quello che stiamo rischiando è una gigantesca perdita di uno scopo».
Il secondo modo si chiama “gig economy”: chi riuscirà a rimanere nelle maglie del lavoro e non sarà cancellato dall’automazione, si troverà forse a lavorare a chiamata. Più flessibilità e tempo libero, in teoria, ma in cambio di cosa? Di un lavoro che non ha una fine né confini. «Il modello di piattaforma», scrive sempre Merchant, «inculca metodicamente e sovrappone una sorta di fabbrica psichica alle vite dei suoi lavoratori. È sia un’inversione sia un’evoluzione: i lavoratori sono costretti a interiorizzare la logica della fabbrica a livello personale, accettando lavori con un clic meccanico e automatico sulle app e seguendo le istruzioni alla lettera, per evitare di perdere occasioni di lavoro o di incorrere in penalità per prestazioni scadenti».
Arrivati a questo punto, si potrebbe dire: bene, e a cosa serve ispirarsi a un nuovo luddismo, considerato che è stato sconfitto? Ma il luddismo non fu un’esperienza perdente, niente affatto. La sfida dei luddisti era sì contro i padroni – non tanto contro le macchine – ma era soprattutto una sfida morale. E ottennero, anche concretamente, diverse vittorie. Dopo il drastico abbassamento dei salari seguito all’introduzione dei telai meccanizzati, le rivolte fecero sì che in molti casi venissero ripristinati stipendi dignitosi, talvolta più alti che in precedenza. Anche se soltanto per alcuni mesi o anni, i luddisti di molte città inglesi riuscirono a rallentare l’introduzione dei telai meccanici e preservare il loro lavoro. Soprattutto, i dirigenti furono costretti al tavolo delle trattative con gli operai, una piattaforma che speravano di poter bypassare.
Non sono i robot rubarci il lavoro
Quindi, che fare: ci sono posizioni estreme, come quella di Eliezer Yudkowsky, un accademico che ha dedicato allo sviluppo dell’intelligenza artificiale molti anni di carriera, per poi diventarne un avversario agguerrito. Yudkowsky non parla tanto di sindacalismo, ma immagina che, nel giro di pochi anni, le intelligenze artificiali raggiungeranno livelli di complessità e rapidità tali che il nostro cervello, così umano, non potrà nemmeno capire, e la fine dell’umanità – ancor più che del lavoro – sarà una conseguenza impossibile da evitare. Nel 2024, su Time, ha pubblicato un op-ed consigliando di spegnere le cosiddette “computer farms” dove le IA vengono addestrate e coltivate. Non solo spegnere: bombardare, con vere e proprie azioni aeree. La guerra, dice Yudkowsky, è già iniziata.
C’è un altro punto di vista, però, che non mette al centro le macchine ma chi le governa. «Se i luddisti ci hanno insegnato qualcosa», leggo ancora in Sangue nelle macchine, sono ormai alle pagine finali, «è che non sono i robot a rubarci il lavoro. Sono i nostri capi». La decisione di automatizzare certi lavori non è presa dai robot, o almeno non ancora, nonostante i timori di Yudkowsky, ma da chi governa quelle macchine. Se qualcuno preferirà generare del testo al posto di pagare una scrittrice, generare un’immagine o un video invece che stipendiare una crew di fotografi e videomaker, e abbonarsi a un servizio di bot per gestire il proprio servizio clienti, invece che dare uno stipendio a un essere umano, lo farà per una ragione soltanto: risparmiare denaro, e poter aumentare il proprio profitto. Non esiste – ecco quello che affermavano i luddisti – una spinta naturale e universale verso la tecnologizzazione del lavoro. Così come la società industriale non è un concetto sovrapponibile con quello di “progresso”, così non lo è il lavoro automatizzato e la gig economy. Quando il percorso viene deciso da pochi, e in molti devono seguire, la marcia è forzata, e non condivisa. C’è chi la guida, e c’è chi si trascina. Ci sono i vincitori e ci sono i vinti.
Allora questo ritorno al luddismo, o meglio, questo ritrovato interesse verso l’esperienza luddista, mi sembra che debba essere visto non come l’organizzazione di una definitiva rivolta contro i data center, montagne di computer dati alle fiamme, cose del genere. Ma come la sveglia per un cambio culturale. Esempi minori e periferici come quello di un gruppo di studenti e studentesse che rinunciano anche soltanto per qualche ora allo smartphone sono l’inizio di qualcosa, un rifiuto della pervasività della tecnologia e della sua influenza sulla nostra vita lavorativa e sulla nostra salute mentale. Potrebbe non bastare. Se un’oligarchia imprenditoriale vorrà sostituire le macchine al lavoro umano, erodendo mezzi, autonomia, comunità e libertà, potrebbe essere necessario un nuovo Generale Ludd nella cui ombra agire. Concretamente.
