Cultura | Cinema

L’impresa impossibile di fare DeLillo al cinema

Rumore bianco di Noah Baumbach è l'adattamento fedelissimo del romanzo ed è proprio questo il suo peggior difetto.

di Fabrizio Spinelli

Il mondo di Don DeLillo è visionario e oracolare. Visionario perché, come è stato spesso notato, la sua materia prima sono le immagini. Anche le consuete acrobazie saggistiche a cui i suoi lettori sono abituati molto spesso partono da immagini o si risolvono in immagini. In poche parole, è stato uno dei primi scrittori a trasformare in arte il semplice fatto che, a differenza dei nostri avi, viviamo in un mondo ad alta trazione visuale. La sua scrittura è ritmata e icastica, in certi aspetti ricorda le operazioni compiute dall’imagismo di inizio XX secolo. Oracolare perché i libri che vanno da I nomi fino a Cosmopolis sono stati per tanti il testo sacro del tardo capitalismo, opere che, lette dieci o venti anni dopo, ci hanno detto molto del mondo in cui viviamo. DeLillo è uno scrittore iperrealistico, tremendamente attento alle selezioni di stimoli e ai processi attraverso cui il soggetto percepiente costruisce la propria realtà. Il suo materialismo è radicale, ma il singhiozzare paratattico della sua prosa si scompone talvolta in un mistero eleusino (DeLillo è stato il primo, dopo Marx, a rendere l’analisi economica poesia?).

Folgorati da Marriage Story – che hanno linkato alle proprie ex fidanzate – dal rilascio endorfinico che provoca guardare Adam Driver recitare, tutti i delilliani che conosco aspettavano con ansia l’uscita dell’adattamento di Rumore bianco ad opera di Noah Baumbach, che nel frattempo, nel corso di più o meno un decennio, era passato da idolo degli hipster del Pigneto (che ostentavano la propria sensibilità scambiandosi dvd del Calamaro e la balena) allo status di grande regista, di auteur. Il carattere di evento della faccenda era stato poi sottolineato poche settimane prima dalla stessa Einaudi (che ritiene i diritti di DeLillo in Italia) con l’annuncio di una nuova (doverosa) traduzione del romanzo (se ne occuperà la bravissima Federica Aceto). Ho visto Rumore bianco due volte nel giro di pochi giorni, in pigiama, prima con i sottotitoli in italiano poi in inglese, sul Netflix di mia madre, cercando di farmelo piacere (con scarsi risultati).

Il film inizia con un montaggio rapido di materiale documentario (per lo più video di incidenti ed esplosioni) commentato da Murray J. Siskind, impiegato di un campus universitario i cui docenti sono degli apocalittici della cultura pop americana fomentati da teorie millenaristiche o cospirative. Murray è l’interlocutore prediletto di Jack Gladney, protagonista insieme alla sua famiglia della narrazione e maggior esperto Usa di studi hitleriani (anche se non conosce il tedesco). Il discorso di Murray ricorda Ballard (La mostra delle atrocità potrebbe essere uno degli ipotesti di Rumore bianco). Sottolinea il carattere vitale ed esuberante di quelle esplosioni, come se fossero il respiro collettivo dell’America contemporanea. Segue la prima (indimenticabile) scena del libro (gli incipit di DeLillo sono tutti così tremendamente visivi e memorabili), ossia l’arrivo delle station wagon che portano gli studenti al campus a inizio semestre. Jack assiste al rituale dalla finestra del proprio studio, con un binocolo. Commenta la cosa con sua moglie, Babette, che pronuncia una delle frasi più fossili di Rumore bianco: «Non riesco a immaginare la morte a quel livello di reddito». Il problema è che qui Greta Gerwig è esplicitamente ironica, mentre il segreto della frase mi sembra proprio il suo tono neutrale e straniante (tipico, del resto, non solo di Babette ma di molti personaggi delilliani). Quello che mi ha stupito continuando a guardare il film è la sua fedeltà quasi filologica al testo del romanzo, nonostante ci siano naturalmente degli adattamenti e delle omissioni (ad esempio, la scena più famosa del libro, la visita al fienile più fotografato di America, è inspiegabilmente assente). Il che fa alla fine di Rumore bianco, come era logico aspettarsi da Baumbach, un prodotto tutto sbilanciato sul «tell» e raramente sullo «show», guardarlo è un’esperienza a tratti brechtiana.

Ho detto che la scrittura di DeLillo è visionaria. Cerco di approfondire meglio questo concetto in relazione alla resa filmica delle sue opere, rifacendomi a un vecchio e notissimo saggio di Wallace, E Unibus Pluram. Wallace rifletteva su come la sintassi audiovisiva avesse influenzato la letteratura contemporanea, il modo di scrivere e di fruire romanzi. Il fatto che siamo tutti persone cresciute davanti alla televisione è il trauma additivo-trasformativo a cui gli scrittori sono chiamati a rispondere. DeLillo è per Wallace uno dei primi romanzieri che riprende nelle sue opere la grammatica della tv o del cinema. Il montaggio delle scene, la loro composizione, il ritmo delle frasi, le descrizioni icastiche, i dialoghi, è come se DeLillo traducesse in parti della scrittura certe peculiarità dell’audiovisivo. Ma ciò non è un puro esercizio postmoderno, in quanto è strettamente consustanziale alla rappresentazione. Per contro, nei libri di DeLillo e soprattutto in Rumore bianco, questa “coazione filmica” è controbilanciata da dei vuoti, delle lacune, da qualcosa di indefinito che la scrittura lascia, come una domanda inespressa di cui conosciamo la risposta, ma che abbiamo dimenticato. Non parlo solo dei dialoghi socratici malfunzionanti tra Jack e i suoi interlocutori, a metà tra delle poesie ermetiche e dei trattati velleitari, o delle riflessioni filosofiche o antropologiche di cui è pieno il libro, ma di semplici asserzioni come questa, la cui bellezza, e il cui significato, sono capitali per una piena esperienza delilliana: «Mi dicono che ho raggiunto una certa età, l’età del timore vago. Il mondo è pieno di significati abbandonati. Nei luoghi comuni io scopro intensità e temi impensabili». Esiste un modo per rendere filmicamente questa frase che non sia una voce fuori campo?

Al posto di tradurre la complessità semiotica del testo e di restituirla allo spettatore, l’operazione di Baumbach appare come un depauperamento delle stratificazioni segniche di Rumore bianco, che non fa un passo avanti passando a un nuovo medium, ma indietro, subendo una ipersemplificazione. Riprende alla lettera la prosa delilliana, ma ne perde il senso profondo. Assistiamo a una banale trasposizione, non a una più stimolante traduzione. Situazione parallela: siamo alle prese con un bellissimo sonetto elisabettiano e dobbiamo renderlo in italiano, solo che, per troppo rispetto della lingua di partenza, manchiamo totalmente il senso di quella poesia nella lingua di arrivo. Leggiamo nel testo la parola «pane» al posto di «bread», ma non ne sentiamo il sapore.

Il film Rumore bianco del libro Rumore bianco ha solo lo schema, la trama, i personaggi, ma non la sua essenza, ossia le radiazioni primitive, rituali e archetipiche del consumo che si trasformano in un incubo brugeliano, il complottismo, la metafisica subliminale, il bombardamento cognitivo delle informazioni, il terrore ontologico, la sensazione che quella chiamiamo realtà sia sempre a rischio di un crollo isterico. Quello che fa Baumbach è un fornirci un prodotto “polito”, ben confezionato, privo di oscillazioni o di aloni, con i bordi definiti, euclidei. Gli attori riprendono le frasi scritte nel libro, ma quelle frasi non hanno più peso.

In più per far andare avanti la narrazione senza sbalzi, per rendere più facile la vita allo spettatore, il regista è costretto a numerosi compromessi. Esempio: la scena dell’esplosione del treno carico di Nyodene D., che causerà «l’evento tossico aereo». Nel libro questa scena manca, sappiamo solo che c’è una nube tossica. Qui invece è ricostruito un incidente tra un camion e il treno merci, intervallando le immagini con una mirabolante orazione di Jack Gladney su Hitler. Il risultato è abbastanza fiacco, stanco, prevedibile. Anche l’idea iniziale, quella di montare del materiale documentario degli anni ’70 per poi inserirlo nella narrazione come uno sfondo allucinato, che poteva essere un bel modo per restituire quell’idea di subliminalità così delilliana, non è portata avanti se non in modo laterale e molto canonico. Ma la scena peggiore è un’altra: Jack deve andare a dire a un operatore del centro di accoglienza in cui si trova con la famiglia che è stato in contatto con il Nyodene D. per alcuni minuti, evento capitale per l’ultima parte del romanzo, quella sul Dylar e sulla tanatofobia. La conversazione nel libro è surreale e assurda, ma anche molto inquietante, ha qualcosa di kafkiano (un computer calcola, non si capisce bene come, che Jack potrebbe morire nel giro di pochi anni), in più c’è tutta una riflessione meta su simulazione e realtà che fa venire la salivazione, mentre nel film scivola via quasi senza importanza, l’operatore è una macchietta comica.

Non è un caso che le scene più felici del film siano appunto quelle già in partenza “visuali”: gli interni della casa in preda al caos di una cena da preparare per quattro bambini, Jack che cerca il Dylar tra i rifiuti, i dialoghi al supermercato con Murray. Baumbach prova un comprensibile piacere mammifero a girare nei supermercati (il film si chiude con un balletto all’interno della catena dove i Gladney vanno solitamente), e ci sono inquadrature che ricordano le bellissime fotografie di Andreas Gursky. In definitiva l’errore di Baumbach mi sembra essere stato quello di non pensare a come rendere questa complessità delilliana cinematograficamente, secondo le proprietà (infinite) del mezzo, assestandosi su una resa fedele dal punto di vista drammaturgico ma debole da quello filmico (è vero che le nube di Nyodene D., l’esplosione del treno merci, gli inseguimenti in auto, hanno costretto Baumbach ad uscire dalla sua comfort zone fatta di interni borghesi, ma sono anche tra le cose meno belle di Rumore bianco). Rimane l’evidenza che fare delillo al cinema è un compito difficilissimo, e non è detto che sia realizzabile.