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Roger Waters in Calabria

La strana storia di come il leader dei Pink Floyd è diventato un simbolo della lotta alla malasanità nella regione.

di Angela Bubba

Cosa potrebbe unire Roger Waters alla Calabria? Cosa lega una leggenda della musica a un piccolo paese della provincia di Cosenza? Nulla, apparentemente. In un rapporto del genere non penseremmo a niente di razionale, non avremmo addendi immediati e soprattutto, una volta ottenuto il risultato, stenteremmo a credere a quanto è sotto i nostri occhi. Ma non dovrebbe sbalordire poi molto, visto lo stupore a cui il leader dei Pink Floyd ci ha abituati nel corso degli anni: visionarietà e gusto per la sorpresa fanno parte della sua impronta artistica (e non solo); psichedelia, incredibilità, meraviglia, sono elementi che lo hanno definito e lo definiscono ancora profondamente, anche se c’è di mezzo la regione più scombussolata d’Italia, anche se questa favola parla di gente che da oltre due anni lotta per un ospedale.

Era il novembre 2020, eravamo tutti serrati in casa per il secondo, surreale lockdown quando un gruppo di uomini decise di occupare la struttura ospedaliera di Cariati, un tempo altamente operativa ma via via stritolata dalle privatizzazioni, mangiata dalla malapolitica, ridotta a un pugnetto di servizi risibili e ovviamente incapaci di fronteggiare i bisogni della popolazione: situazione non isolata questa, ma da inserire anzi in un trend tragico che dal 2010 ha al centro l’area calabrese. Parlando al telefono con Mimmo Formaro, uno dei protagonisti dell’insurrezione, la storia acquista un che di mitico, di miracoloso e stupefacente, ed effettivamente lo è. Per ben otto mesi, mi spiega, lui e i suoi compagni hanno portato avanti il presidio. «La notizia era ovunque», aggiunge emozionato, «ricevevamo messaggi anche dalla Turchia, dal Cile, dal Giappone. Le televisioni venivano qui a Cariati, non c’era giorno che non fossimo assaltati da questo o quel giornalista, pareva di stare a Montecitorio!».

Ma dopo il primo, esaltante periodo la battaglia perde mordente, l’interesse fisiologico cala – come spesso accade – e quella che sembrava un’azione scintillante s’impantana in una guerra d’indifferenza. Peccato che dietro l’angolo era già pronto il colpo di genio, o il colpo del caso: chiamiamolo come vogliamo. Succede infatti che due registi, Federico Greco e Mirko Melchiorre, sempre del 2020 girano un documentario sulla sanità calabrese. Seguono con le telecamere Gino Strada, all’epoca attivo con Emergency a Crotone. Gli vanno dietro filmando i suoi movimenti, i suoi sforzi che potremmo definire eroici, per usare un eufemismo, date le condizioni da terzo mondo del territorio in cui operava. Da lì a raggiungere Cariati il passo è breve, decidono di raccontarne gli eventi e scommettono sulla risonanza mondiale cha potevano tornare ad avere.

«All’inizio ci venne in mente Ken Loach, che già conoscevamo», m’informa Federico Greco, «pensammo a lui perché sapevamo del suo interesse per la sanità pubblica. Lo intervistammo, ne fummo felici. Un giorno gli chiedemmo il numero di un suo caro amico, molto sensibile alla stessa causa. Volevamo intervistare anche lui. Loach accettò e accettò pure il suo amico: era Roger Waters». «Com’è andata?», chiedo ancora. «Bene», risponde Federico. «Ci incontrammo a distanza dopo circa un anno. Su Zoom. Non potevamo raggiungerlo per le restrizioni legate al Covid. È stato chiaramente emozionante».

Un estratto viene pubblicato poco dopo, nel dicembre 2021. Waters indossa la solita, elegante maglietta nera mentre fulmina l’ambiente coi suoi occhi grigiazzurri: «Aprite l’ospedale di Cariati subito», sentenzia nel suo appello, in un italiano sforzato e per questo ancora più perentorio. Parla con amore, con speranza, con una forza che immancabilmente fa storia e in breve suscita l’interesse internazionale. L’intervista integrale uscirà invece in un secondo momento, qualche mese fa, come parte integrante dell’opera C’era una volta in Italia – Giacarta sta arrivando, attualmente in programmazione nei cinema italiani. Dopo le prime tappe calabresi, nei giorni scorsi  – 11, 13 e 14 febbraio – è stata la volta di Roma, Milano e Torino, alla presenza dei registi e (in diretta streaming) degli attivisti calabresi oltreché dello stesso Waters.

Nel corso di questi incontri, come di consueto, il cantautore sfoggia la sua famosa ironia, si mostra tagliente, forte e sicuro di sé. Ma anche rammaricato, inasprito, arrabbiato. Dice che ci stanno scippando il pianeta, poco a poco, e che non dobbiamo permettere ai “motherfuckers” di turno di mandare tutto a catafascio. Dice poi che dobbiamo resistere e che ogni duello è importante, anche il più irrisorio, anche quello che stanno conducendo per la sanità in Calabria.

Non nuovo a esternazioni simili, Waters segue l’epica cosentina con uno spirito che ha poco dell’approfittatore, spalleggia quest’Iliade meridionale in un modo che è del tutto disinteressato, è autentico, è commovente, ed è l’ulteriore conferma di una tendenza che sembra quasi una missione, come dimostrano i suoi interventi in non poche crisi umanitarie, dalle più mediatiche alle più circoscritte: oltre al Cariati-gate, se così possiamo ribattezzarlo, pensiamo alle centinaia di volte in cui ha strigliato i politici (i primi ministri inglese Thatcher e Blair, solo per fare due nomi), pensiamo alla sua posizione sul conflitto tra Israele e Palestina, al soccorso dato a due bambini siriani – Ayyub e Mahmud – perseguitati dalla guerra, alle dichiarazioni fatte in Ecuador contro le multinazionali del petrolio, e ancora alla difesa di Julian Assange, all’aiuto prestato ai migranti in mare, all’appoggio verso gli occupanti di una fabbrica greca, ma pensiamo anche a quanto ha affermato lo scorso 8 febbraio, presentandosi all’ONU su invito della Russia e allestendo un discorso memorabile, un vero e proprio peana d’imputazione: duro, lapidario, viscerale, così straziante che risulta perfino comico quando Waters arriva a sfottere un diplomatico che lo aveva paragonato a Mr. Bean. Ammettiamolo, un gesto da inguaribile indipendente che convalida il suo essere un eclettico, un virtuoso dello spirito critico che gioca con la provocazione, quella vera però, quella che lacera, dentro e fuori dal palco, e che così facendo s’inimica parte dell’opinione pubblica, in quest’ultimo caso antiputiniana.

Uno potrebbe anche pensare che è un pazzo, un eccessivo, un fanatico, meglio ancora un lunatico, come sarebbe piaciuto al suo omonimo co-fondatore di band, scomparso nel 2006: Roger Keith “Syd” Barrett. Forse, anzi probabilmente, Waters difende con le unghie e con i denti delle cose in via d’estinzione: tanto per cominciare la libertà e i diritti, i propri come quelli degli altri. Forse, anzi sicuramente, potremmo provare a ringraziarlo, visto che al netto delle sue contraddizioni come degli imponenti impegni lavorativi – il proseguimento del tour europeo This Is Not a Drill ad esempio, o la nuova registrazione dell’album The Dark Side of the Moon – continua a sperticarsi per ciò di cui dovrebbero occuparsi le istituzioni, o nella più utopica delle previsioni la politica. Non di rado Waters si espone con ferocia, è vero, senza risparmio e mezze misure, ma verrebbe da pensare che è un bene se alla fine centra il bersaglio: come nel caso dei ribelli di Cariati, che qualche giorno fa hanno strappato a Roberto Occhiuto, presidente della regione Calabria, la promessa della riapertura del famigerato ospedale. Da calabrese, da figlia di un’infermiera di Catanzaro che ne ha viste di ogni sorta, da persona che ha parenti morti ammazzati da un sistema statale indegno e in ultimo, ma non meno importante, da patita fino all’osso dei Pink Floyd e della coppia Syd/Waters in particolare, non posso che essere felice.