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Lena Dunham ha annunciato la data di uscita del suo nuovo libro, Famesick Un memoir scritto nell'arco di sette anni che parla di «malattia, dipendenza e sofferenza amorosa».
A Broadway è arrivato il musical dell’Italian Brainrot e durante la prima ovviamente è successo di tutto Tung Tung Tung Tung Tung Tung Tung Tung Tung Sahur è stato arrestato, il pubblico l'ha presa male, la protesta è arrivata fino a Times Square.
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Un quadro trafugato dai nazisti è stato ritrovato in Argentina grazie a un annuncio immobiliare È il "Ritratto di signora” del pittore italiano Giuseppe Ghislandi, meglio conosciuto come Fra Galgario.
È morto a 91 anni Giorgio Armani Con infinito cordoglio, il gruppo Armani ha annunciato la scomparsa del suo ideatore, fondatore e instancabile motore.

L’ultimo rinoceronte bianco

Un artista, una fotografa, uno scrittore e un curatore, protagonisti di una spedizione per assistere all’estinzione dell’ultimo rinoceronte albino.

14 Marzo 2016

Quest’articolo è tratto dal nuovo numero di Studio, in edicola da mercoledì 9 marzo.

Nel mezzo di febbraio del 2016 un gruppo di occidentali si è imbarcato su diversi voli, da diverse direzioni, alla volta di Nairobi, la capitale del Kenya: con differenti mezzi, e in tempi sfasati, ciascuno ha raggiunto la cittadina di Nanyuki, duecento chilometri a nord est. Ai confini del villaggio si estende un ciclopico parco naturale protetto dalle autorità. I turisti ci fanno i safari. I militari e i veterinari ci proteggono gli animali. Il gruppo – un artista, un curatore, una fotografa, un operatore di camera, un direttore della fotografia, uno scrittore – si è spinto fin lì perché nella Conservancy di Ol Pejeta si protegge con ogni mezzo necessario l’ultimo esemplare di Rinoceronte Bianco del Nord. Si chiama così perché è nato in Sudan, quarantatré anni fa. Poi è stato portato in Europa, a Praga, dove ha perso l’uso scattante delle zampe anteriori, diventando incapace di montare le femmine. Tutti i maschi della sua sottospecie sono stati uccisi dai bracconieri.

Il motivo per cui i bracconieri uccidono i rinoceronti è il loro corno, che in alcuni mercati globali ma in realtà ancestrali viene polverizzato, perché ritenuto un potente afrodisiaco. La polvere di questi strani angeli preistorici e terrosi vale come la angel dust: ma non è difficile giocare con le parole e vedere nell’avidità senza senso di un commercio senza senso un sottoprodotto involutivo della rabbia umana, figlia dei figli dei nostri progenitori che spaccano le ossa ai loro inferiori, nell’alba dell’uomo immaginata da Stanley Kubrick. Quella dei corni è anger dust. Ma non c’è solo rancore tra specie, nella vicenda di Sudan: c’è anche una forma di stupidità quasi comica.

All’inizio ci sono decine di migliaia di rinoceronti, che la tassonomia ha diviso in bianchi e neri. Poi i cacciatori occidentali e i successivamente i bracconieri locali uccidono questi bellissimi mammiferi per appropriarsi di un corno fatto di cheratina, la stessa materia di cui sono fatte le nostre unghie. È il primo gesto crudele e non necessario, visto che la cheratina ricresce – il corno ricresce. Sudan viene riportato in Africa negli anni Novanta, insieme ad altri due maschi settentrionali bianchi, che però muoiono per cause naturali. Ci sono delle femmine, due, ma Sudan è diventato impotente a causa del confino in uno zoo ghiacciato, che ha impedito alle sue zampe anteriori di sviluppare l’abilità di spingere l’imponente mole verso l’alto, gesto necessario per copulare e riprodursi. Per proteggerlo dai bracconieri, poi, gli è stato tagliato il corno. Così i bracconieri hanno cominciato ad assaltare musei zoologici e dipartimenti universitari, solo per scoprire che i corni lì esposti sono spesso copie di gesso, mentre gli originali vengono tenuti nascosti.

Sudan è un’opera d’arte morente, e noi siamo qui per vedere in diretta la sua estinzione lentissima

Oggi Sudan viene guardato a vista, di nuovo in cattività, e avendo il corrispettivo umano di 90 anni, non è facilissimo organizzare una fecondazione assistita. L’ultimo paradosso di questa vicenda di cultura che tradisce la natura è che si stanno cercando i fondi per determinare una fecondazione nell’utero di un rinoceronte nero, in pratica un utero in affitto. Sudan è un’opera d’arte morente, e noi siamo qui per vedere in diretta la sua estinzione lentissima.

Sono una delle persone che ha partecipato alla spedizione per filmare Sudan. L’idea è venuta da Luca Trevisani, che lavora con diversi media ma che ultimamente si è dedicato con passione ai video – uno degli artisti più intellettualmente consapevoli che abbia conosciuto. La fotografa è Giovanna Silva, che è anche un editore, oltre che una delle migliori viaggiatrici italiane. Il curatore è Davide Giannella, un commissario di esposizioni (vero “francesismo” che trovo molto adatto a descrivere la sua professione) curioso e sofisticato, il quale mi ha scritto una mail dopo il nostro ritorno, da cui estrapolo queste righe:

Caro Gianluigi, ti scrivo appena rientrato dall’esperienza keniota che abbiamo vissuto assieme a Luca e a Giovanna. Onestamente, la natura, nella sua bellezza e nella sua spietatezza non mi è mai particolarmente interessata. Perché mi sembra rimanga sempre uguale a se stessa, regolata da principi che poco hanno a che fare con le sfumature e le bizzarrie che possono appassionarci. In particolare mi hanno colpito due aspetti di questa esperienza e hanno in qualche maniera messo in discussione la mia consueta visione delle cose.  1. Io credo che quella di Luca sia una maniera di progettare ormai necessaria. Trovo che da parte di un artista  sia una scelta piuttosto radicale, oltre che rara, coinvolgere attivamente altri soggetti nella gestazione di un proprio lavoro. 2. Quando siamo arrivati in Kenya, non avevamo una reale idea di quello che ci sarebbe parato davanti. La cosa veramente interessante – il nucleo attorno al quale anche il film probabilmente graviterà – è stato cogliere il rapporto tra Natura e Cultura, tra ciò che sembra essere certo e inevitabile nel suo svolgimento e ciò che invece si muove con passi incerti su un terreno di valori condivisi ma comunque, sempre, discutibili.

Per me l’incontro con Sudan è stato il pinnacolo di un sogno lucido, faticoso: lo vedo ancora davanti a me, adesso che sono a Londra e le mie dita sfogliano i prezzi dei cappotti Dior da Selfridge’s, e mi sento l’ultimo degli uomini morali. Sono le cinque di mattina del 20 febbraio 2016. Siamo svegli dalle quattro, con le nostre attrezzature e la nostra scarna attenzione. La luce è perfetta, un rosa affranto e disperso nell’orizzonte più ampio che abbia mai incrociato coi miei occhi. Sudan si muove piano, si irrita forte (Cultura!). Piscia spruzzando (Natura!) Lo osserviamo (Natura!) Siamo incantati, ma ogni tanto anche annoiati. (Cultura!) Sudan peta per minuti interi, e noi senza controllarci ridiamo (Natura?) Io ricordo all’improvviso un libretto di Roger Caillois sul mito del liocorno, perché mi viene in mente che i rinoceronti sono la versione reale degli unicorni (Cultura!). Mentre guardo sul browser Safari (Natura? Cultura?), apprendo della morte di Umberto Eco (Cultura? Natura?). Rabbrividisco, mentre lo zoom ingrandisce flessuoso le immagini della pelle ruvidissima di Sudan. Che è Natura. Rabbrividisco puntando lo sguardo sui soldati, con i loro kalashnikov, che sono Cultura. Rabbrividisco perché so che se tentassi di uccidere questo animale mi sparerebbero. La mia vita vale meno di quella di un rinoceronte. E in termini di diversità naturale, e superiorità culturale, forse è giusto così.

Fotografie di Giovanna Silva.
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