Il dibattito intorno al caso del Ceo colto in flagrante al concerto dei Coldplay e al vocale di Raoul Bova diffuso da Fabrizio Corona ci sta facendo capire quanto ancora abbiamo bisogno di parlare di tradimento.
Stavo riguardando, fiera, i miei repost di TikTok (sì, a quanto pare è diventato socialmente accettabile ammettere pubblicamente che amiamo riguardarli in loop, un po’ come le nostre storie prima che scadano le 24 ore). Tra quelli che mi sono apparsi nelle ultime settimane mi è rimasta impressa una creator che recitava, testuale: «I’m sick of dating. It’s always swag gap, aura gap, emotional intelligence gap, stability gap, hairline gap». Tralasciando quella punta di bodyshaming (almeno sui capelli, concedeteci di rispondere al mansplaining rinfacciandovi le nostre folte chiome), questo video con centinaia di migliaia di like sintetizza bene lo zeitgeist, dando il via nei miei “per te” e nel mio cervello a un’invasione di “gap”, tanto che da allora non posso evitare di abusare di quel termine. Forse perché fotografa bene l’attuale grammatica relazionale: non si parla più di compatibilità, ma al contrario di divergenze, di distanze, forse, da colmare. Aura gap, swag gap o che dir si voglia. O ancora education gap, age gap, literacy gap, cultural gap, spiritual gap, mental health gap, energy gap, taste gap, style gap. La lista è lunga. Ogni coppia sembra definita da una differenza che, più che un problema, è diventata un genere narrativo. Il linguaggio dei social ha trasformato la discrepanza da semplice dato di fatto a diagnosi estetico-relazionale.
La viralità del dislivello
Negli ultimi mesi la parola gap è diventata una lente collettiva. Invece di dire “non era cosa”, diciamo, per l’appunto, che “c’era un aura gap”. È più elegante, ma anche più comodo: il gap ci deresponsabilizza. Non è che non fossimo compatibili, è che tra noi c’era una differenza vibrazionale, estetica, karmica, qualsiasi cosa voglia dire. E tutto questo sposta il problema: il gap è un’entità astratta, non qualcosa da prendere sul personale. In terapia, nel dubbio, continueremo ad andarci entrambi, ma nel frattempo finiamo per trasformare la relazione in una piccola gara a chi brilla di più. È pieno di Tik Tok che ci mettono in guardia dal circondarci di persone “non alla pari”. Finirebbero per invidiarci, o peggio ancora, per emularci. E così ci ritroveremmo plagiate da quell’uomo che prima di conoscerci “non aveva il minimo senso della moda e dello stile” e che adesso pronuncia perfettamente Ann Demeulemeester. È proprio questa dinamica che su internet chiamiamo swag gap, ma che in realtà racconta un cambio più profondo: la fine del mito della coppia “alla pari”, quella in cui entrambi dovevano essere complementari, speculari, bilanciati.
Coppie famose, coppie specchio
La fascinazione per il gap non riguarda solo chi scrolla TikTok alle tre di notte. Anche le coppie famose vengono ormai lette in questi termini. In tutte queste storie eterosessuali, il pubblico sembra convinto che lei sia quasi sempre “più”: più bella, più interessante, più carismatica, che emani più “aura”. Lui, accanto, appare quasi sempre un po’ stanco, spaesato, con l’aria di chi non ha capito bene come si è ritrovato lì. E questo, paradossalmente, non rende giustizia a nessuno. Se guardiamo a casa nostra, rimpiangiamo Morgan e Asia Argento, che poi sono stati un po’ i nostrani Pete Doherty e Kate Moss, ci mancano Ilary e Totti. Coppie che all’apparenza sembravano allineate: stesso carisma, stesso appeal mediatico, nessun gap visibile. E invece, proprio quelle simmetrie da copertina, alla lunga, si sono incrinate. Al contrario, le coppie che oggi attirano più curiosità sono quelle diseguali: Bella Hadid e il suo cowboy Adan Banuelos. O ancora Lana Del Rey e Jeremy Dufrene, guida naturalistica specializzata in tour per l’avvistamento di alligatori della Louisiana, che all’ultima sfilata di Valentino, accanto all’eterea cantante, si è presentato con i cargo e gli occhiali specchiati. Sul cappellino. Capovolti al contrario.
Non solo estetica. Il party gap
Ma non è solo e unicamente una questione di estetica. Entrano in gioco anche le abitudini e le attitudini. Dazed si chiede anche se una coppia possa effettivamente resistere a un diverso modo di fare serata, o più in generale di affrontare la socialità. Si può sopravvivere al party gap? A quella distanza tra il desiderio di movimento e quello di quiete? A sentire gli intervistati dalla rivista britannica la cosa non sembra così inaccettabile, «purché si trovi un equilibrio senza forzare questo divario, che potrebbe creare ulteriore risentimento» dice Rachel Wright, psicoterapeuta di New York. Forse è proprio qui che si misura oggi la tenuta di una relazione: nella capacità di accettare che l’intimità possa avere orari e ritmi diversi.
La cultura del confronto
L’ossessione dei gap dice molto della cultura relazionale contemporanea, dove l’amore è spesso trattato come un algoritmo da bilanciare. Siamo la generazione che ha trasformato il romanticismo in una forma di competizione soft: chi ha più swag, chi più healing, chi più stability. Ma forse, come scrive bell hooks in All About Love, «l’amore non nasce dall’equilibrio, ma dall’accettazione». Eppure continuiamo a cercare coppie “matchate”, come se il vero rischio fosse proprio l’asimmetria, quella che in fondo, da sempre, genera movimento, attrazione, curiosità. Dove sono finiti gli opposti che si attraggono? Le dive d’oltreoceano sembrano volerci insegnare che le coppie che funzionano non sono quelle perfettamente allineate, ma quelle impari: dove ciascuno rimane sereno nel proprio territorio, dove ognuno resta tranquillamente nella propria zona di competenza senza cercare di colmare o annullare le differenze. Meglio allora un fidanzato che ti guarda con calma da un’altra prospettiva anche se addestra cavalli invece di sfilare per Saint Laurent. Sempre ammesso che qualcuno abbia ancora voglia di una relazione, naturalmente. D’altronde, come ha scritto Vogue British, avere un ragazzo oggi è diventata una cosa leggermente imbarazzante.
