Cultura | Cinema
Il Cavaliere Oscuro colpisce ancora
Il film di Matt Reeves, al cinema da oggi, rifonda ancora una volta il mito di Batman, trasformandolo però in una cosa diversa, inedita: non più eroe action ma detective, non più vendicatore solitario ma eroe popolare.
In una delle tante edizioni celebrative di Batman: Anno uno – una rifondazione del mito del Cavaliere Oscuro, un racconto del suo primo anno da Caped Crusader – si possono leggere alcune delle note lasciate dallo sceneggiatore Frank Miller al disegnatore David Mazzucchelli: nelle prime uscite notturne fatte per impratichirsi con il mestiere di vigilante, il giovane Bruce Wayne avrebbe dovuto avere l’aspetto di uno che «ha vinto un concorso per sosia di Taxi Driver», scriveva Miller a Mazzucchelli. In un’intervista a Esquire, Matt Reeves ha fatto capire che Anno uno è stato per lui il punto di partenza nell’esplorazione del mito infinito del Batman fumettistico. Si è appassionato a quel ciclo di storie, proprio a quel ciclo di storie, perché in alcune vignette il giovane Bruce Wayne «è vestito in una maniera che lo faceva sembrare il protagonista di una scena di Taxi Driver». Solo alla fine della lettura Reeves scoprirà la nota scritta da Miller a Mazzucchelli, trovando in quelle parole la risposta alla domanda che tutti si facevano all’annuncio dell’ennesimo reboot della saga cinematografica di Batman: ma che senso ha l’ennesimo reboot della saga cinematografica di Batman? Il senso ce l’ha e ce l’avrà sempre, dice Reeves, perché Batman è l’unico supereroe che può essere (anche) Travis Bickle in Taxi Driver. O Kurt Cobain impegnato a scrivere “Something in the way”, ultima traccia di Nevermind e pietra angolare dell’imponente colonna sonora del film di Reeves (assieme agli archi e agli ottoni della composizione di Michael Giacchino): «A quest’uomo è capitata una tragedia ed è diventato talmente solitario che gli altri non hanno idea di cosa stia combinando. Forse è diventato una specie di tossicodipendente, imprevedibile, incosciente? E la verità è che è un tossicodipendente. La vendetta è la sua sostanza», dice Reeves.
«Io sono la vendetta», spiega il Batman interpretato da Robert Pattinson nella prima scena del film, una delle più memorabili ouverture cinematografiche degli ultimi anni. Nelle intenzioni di Reeves, una frase che è un’ammissione di colpa. Che in questo film Batman sia un tossicodipendente, uno squilibrato, lo si capisce al primo sguardo rivolto a Pattinson: il pallore malaticcio della pelle, il nero violaceo che circonda gli occhi, un leggerissimo strato di unto che sporca i capelli, i vestiti che sembrano raccolti da un cassonetto dell’immondizia. Vive recluso nella Batcaverna e nemmeno Alfred riesce più ad averci a che fare, e davvero in certi momenti viene da pensare agli ultimi giorni di Kurt Cobain raccontati da Gus Van Sant in Last days. Ma poi cala la notte e Batman emerge da una delle tante pozze di oscurità che sporcano le strade di Gotham: il Bat-segnale è acceso e i malviventi sanno che si tratta non solo di un simbolo «ma di un avvertimento». «Temono che mi nasconda nell’ombra, ma io sono l’ombra», racconta il Cavaliere Oscuro (un’altra ammissione di colpa, da un certo punto di vista) nel voice over che poi scopriamo essere la pagina del suo diario dedicata al 31 ottobre, giorno in cui la storia del film comincia e rimando a un’altra ispirazione fumettistica, Il lungo Halloween di Jeph Loeb e Tim Sale. Molto più che in altri film di Batman – e sembra incredibile per un personaggio noto anche con il titolo di Cavaliere Oscuro – in questo l’ombra è più che un pezzo di scenografia: è un tema. Reeves ha detto più volte che la sua intenzione era realizzare un film «contemporaneo» nel senso di rappresentativo. Ne è venuta fuori un’opera sui pericoli che si muovono nelle parti di mondo che non vediamo: perché ci sfuggono, perché le ignoriamo, perché ci spaventano, perché ci infastidiscono, perché ci intristiscono.
L’Enigmista interpretato da Paul Dano è stato portato come spiegazione della vera natura del film: d’altronde si sa che tutti i film di supereroi (e i film di Batman in particolare) sono una catena forte quanto l’anello costituito dal villain che ostacola l’eroe. L’Enigmista in questo film è lo Zodiac Killer di Zodiac, il John Doe di Se7en, il Jigsaw di Saw, il Joker di Heath Ledger (e pure quello di Joaquin Phoenix), si è detto. La prova dell’originalità di Reeves, che ha voluto fare il film sul Batman “miglior detective del mondo” (ci sarà pure una ragione se la testata principale sulla quale vengono pubblicati i fumetti del pipistrello si chiama Detective Comics), tenendo fede alla sua promessa di noir e di giallo, rispettando l’ispirazione che lui stesso ha ammesso essergli arrivata da Il braccio violento della legge, Chinatown e L.A. Confidential. Una scelta coraggiosa, c’è da riconoscerlo: la trama così si addensa moltissimo e il minutaggio si allunga di conseguenza (si va per le tre ore), il film in certi tratti è verboso come le parti difficili dei film di Christopher Nolan senza che Reeves abbia la regia geometrica, architettonica che permette a Nolan di cavarsela sempre. Non che Reeves sia uno privo di predilezioni estetiche: è il primo (dopo Burton?) a restituire a Batman almeno una parte del fascino gotico che si era andato via via diluendo nella successione delle iterazioni, e nella principale scena d’azione del film – una car chase in cui il Pipistrello cerca di acchiappare il Pinguino interpretato da Colin Farrell – si vede tutto il disprezzo per le angolazioni scolastiche che il regista ha imparato da Kubrick e tutto l’amore per i volti come veicolo dell’azione appreso dal Miller di Mad Max: Fury Road. E poi ci sono i dettagli: il bastone e i gemelli di Alfred (Andy Serkis), la maschera con le orecchie da gatta di Selina Kyle, la Catwoman di Zoë Kravitz, che quando ha sete beve un bicchiere di latte.
Ma, si diceva, l’Enigmista. L’Enigmista in questo film è soprattutto la setta di QAnon e il terrorismo degli incel e l’anonimato di Internet, le minacce contemporanee e rappresentative che si muovono nelle parti di mondo che non vediamo, i Tyler Durden di cui Bruce Wayne rappresenta una delle possibili variazioni sul tema. Non a caso, il gadget che Batman usa di più nel film è una lente a contatto che gli permette di vedere quello che agli altri sfugge, di rivedere quello che lui stesso trascura. «Ma io sono tra di loro», dice infatti Bruce a un certo punto, e non si capisce se si riferisca alla brava gente o ai ceffi da galera di Gotham. «Sono tra di loro», perché se c’è un messaggio politico da estrarre da questo film è che viviamo l’epoca in cui nessuno può limitarsi a essere testimone: vedere significa appartenere, non si può essere soltanto something in the way. «No more lies», ripete ossessivamente l’Enigmista. Nel mondo stilizzato di quello che resta pur sempre un cinecomic, nei grigi che contengono comunque abbastanza nero o abbastanza bianco da distinguere i buoni dai cattivi, vedere significa appartenere e appartenere significa scegliere una delle due parti. In uno degli scambi più riusciti del film, Batman spiega a Jim Gordon (interpretato da Jeffrey Wright) le ragioni della fiducia che ripone in lui: Gordon non è un poliziotto perché non ha “visto” ancora la corruzione dell’istituzione che rappresenta, ancora non ha scelto una parte. Nel voice over con cui il film comincia, Batman muove a se stesso un rimprovero fatto della stessa sostanza: nei due anni passati a pattugliare le strade notturne di Gotham, non è riuscito a cambiare nulla e non ha fatto nessuna differenza. Si capisce, nel corso del film, che l’immobilismo di Batman (come la decadenza di Gotham) è dovuto alla sua incapacità di compiere una scelta: di schierarsi da una parte, assieme ad altri, perché non basta rendere la città più sicura ma tocca provare a costruirne una migliore. E nessuno può farlo da solo, proponendo(si) la vendetta come essenza. Partendo da questa consapevolezza, The Batman compie la scelta azzardata e coraggiosa che nessuna delle iterazioni precedenti del Cavaliere Oscuro aveva avuto l’ardire di compiere: lo costringe al cambiamento rendendolo un agente dello stesso, lo trasforma in un eroe popolare in cui coincidono quello di cui Gotham ha bisogno e quello che la città merita, pienamente consapevole della sua portata simbolica e della sua appartenenza a una comunità. Una scelta che rende il personaggio, e il film, contemporaneo e rappresentativo. Perché, come ha scritto Alex Abad-Santos su Vox, nessuno in questo momento ha voglia o bisogno di «violenza reazionaria a cui viene concessa carta bianca, di vendetta ricompensata con ricchezza, di un’esistenza senza anima guidata da un’ambizione sanguinaria». Probabilmente in quest’epoca nessuno aveva davvero bisogno di un altro Batman. Ed è proprio per questo che Reeves ha deciso che con il suo Batman lui avrebbe fatto altro: per dimostrare che il Cavaliere Oscuro colpisce ancora. E sempre.