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Animali sovietici

In Orsi danzanti il reporter polacco Witold Szablowski racconta, attraverso le sofferenze degli orsi, la transizione verso la libertà dei Paesi socialisti e il crescente desiderio di ritorno ai tempi dell'Urss.

di Francesco Gerardi

Limonov di Emanuele Carrère comincia con una frase pronunciata da Vladimir Putin: «Chi vuole restaurare il comunismo è senza cervello. Chi non lo rimpiange è senza cuore». Se c’è una cosa che l’inizio della guerra in Ucraina ci ha insegnato, è che tutto quello che il Presidente della Federazione russa dice fa parte di un discorso (di un piano) per definizione più ampio e più complesso. Putin sa che la nostalgia per l’Unione Sovietica è una verità, una cosa che esiste davvero, un sentimento che persone in carne e ossa provano, un fenomeno istituzionalizzato dall’esistenza persino di una voce dedicata su Wikipedia. Dal 2004 in Russia esiste un canale tv tematico che si chiama Nostalgiya: nel logo ci sono la falce e il martello e il produttore Vladimir Ananich lo ha definito un balsamo per quegli uomini tra i quaranta e i sessant’anni che non chiedono altro che «partire per un viaggio nostalgico alla volta della loro gioventù mentre bevono vodka durante un solitario venerdì sera». In uno studio svolto del Levada Center nel 2020 è venuto fuori che due terzi dei russi davvero rimpiangono l’Unione Sovietica: «stabilità, ordine e speranza nel futuro», c’erano allora e non ci sono oggi.

Si dirà: è la nostalgia di chi è nato in una superpotenza e poi si è ritrovato in terra di conquista. È vero in parte ma non del tutto. Nel 2019, a trent’anni dalla caduta del Muro di Berlino, il Pew Research Center chiese a cittadini di 17 Paesi dell’Europa dell’est (di cui 14 oggi sono membri dell’Unione Europea) come se la passassero rispetto ai tempi delle repubbliche sovietiche e del Patto di Varsavia: se polacchi, ungheresi, lituani, cechi e slovacchi si dicevano contenti della transizione alla democrazia liberale (in alcuni Paesi più liberale, in altri meno) e all’economia di mercato, più della metà di ucraini e bulgari (e dei russi, ovviamente) affermava di stare peggio oggi che trent’anni fa. La nostalgia per l’Unione Sovietica è un fatto, è come tutti i fatti si presta a essere manipolato da chi ha interesse per sé (Putin) e studiato da chi ha interesse per la verità: storici, sociologi, economisti, politologi, antropologi stanno tutti cercando di capire come sia possibile e perché succeda. Anche i giornalisti, con i loro metodi spesso sgangherati e rivelatori. Giornalisti come Witold Szablowski, che la nostalgia per l’Unione Sovietica l’ha indagata partendo da un’altra tradizione di quella che lui chiama la Terra della Transizione, l’Europa centro-orientale. Una tradizione che, proprio come il comunismo, sembrava destinata a durare in eterno fino a quando, improvvisamente, ha smesso di esistere: gli orsi danzanti.

Angel Angelv e il suo orso danzante Gosho fotografati a Sofia nel 2001 (Foto di Kael Alford/Newsmakers)

Pare che i nomadi siano arrivati nell’Europa dell’est dall’India portandosi dietro gli orsi danzanti. Per generazioni, intere famiglie hanno vissuto del lavoro degli orsi. Insegnare all’animale come ci si muove a tempo di musica è una questione di soglie di sopportazione da non superare. La parte più sensibile del corpo di un orso è il naso ed è da qui che comincia l’addestramento: al cucciolo viene bucato in modo da farci passare l’holka, l’anello di ferro al quale sarà attaccata la catena che terrà la bestia legata al padrone per tutta la sua vita. «Piantare qualcosa nel naso di un orso è come piantare nel pene di un uomo un chiodo arrugginito», dice una giornalista che nel 2007 assistette alla liberazione degli ultimi orsi danzanti d’Europa. Nel piccolo villaggio di Gecovo, nel nord della Bulgaria, la famiglia Stanev accettò – non senza proteste – di cedere Miso, Svetla e Mima a Quattro zampe, una superpotenza tra le associazioni per i diritti degli animali e proprietaria del parco di Belitsa sulle montagne bulgare, luogo in cui gli orsi un tempo schiavi imparano piano piano la libertà. Szablowski dice che l’idea per Orsi danzanti. Storie di nostalgici della vita sotto il comunismo (Keller) gli è venuta durante la sua prima visita a Belitsa: il paradiso gli è sembrato un laboratorio, la parola che gli viene in mente anche quando pensa all’Europa dell’est dal giorno in cui l’Unione Sovietica ha smesso di esistere. Un esperimento con la libertà in mezzo e il filo spinato elettrificato attorno. Una simulazione o una finzione. Una Terra della Transizione.

Gli orsi di Belitsa hanno una cosa che agli esseri umani dell’Europa dell’est non è stata concessa: il tempo. La libertà la imparano piano piano: ci si aspetta sia così e si fa in modo che vada così perché altrimenti la nuova condizione provoca in loro «perfino aggressività». Gli abitanti del villaggio vicino al Parco degli Orsi Danzanti sono la prova dell’intuizione di Szablowski: sono tutti arrabbiati perché appena arriva la stagione gli orsi «si pappano le fragole» che loro non si possono permettere, sono offesi dal fatto che a cadenza regolare dalla Germania arrivi un dentista per controllare le zanne degli animali quando loro sono costretti a scegliere l’estrazione del dente appena sentono un dolore in bocca, chiedono in continuazione quanto costi più o meno una giornata di cibo per gli orsi e un anno di attività per il parco. Le persone che a Belitsa ci lavorano provano a spiegare il perché di questo e di quello, ma non possono andare troppo nel dettaglio perché altrimenti sarebbero costretti ad ammettere una verità inaccettabile: nonostante tutto il tempo e tutte le cure, gli orsi del parco restano sempre nella Terra della Transizione. Capita che non vadano in letargo perché non sanno come scavare la buca necessaria a contenerli nel periodo di ibernazione: alla fine si addormentano in una delle cucce costruite per questa evenienza. Succede che si disperino quando alla fine della stagione degli amori non vedono nascere i cuccioli: non sanno mica di essere stati castrati. Accade che non sappiano come fare a ingoiare le noci perché gli ex-padroni hanno estratto loro i denti per evitare di essere morsi: passano un sacco di tempo a spostare le noci intere dalla guancia destra a quella sinistra, senza capire perché non arriva mai il momento di inghiottire. Molti di loro sono dipendenti dal pane e dall’alcol, i trucchi dell’addestratore per assicurarsi la mansuetudine. Quasi tutti muoiono a causa di tumori difficili da spiegare anche per un’associazione che può permettersi i migliori veterinari. E cosa fanno gli orsi ogni volta che non capiscono cosa sta succedendo? Si mettono in piedi sulle zampe posteriori e cominciano a ballare. «Chiamano l’addestratore, vogliono che torni e si prenda di nuovo la responsabilità della loro vita. “Che mi picchi, che mi maltratti, ma che si riprenda questo maledetto bisogno di doversela cavare da soli”».

Foto di Kael Alford/Newsmaker

Nella seconda parte del libro, nei nove capitoli dedicati alle persone (nove come quelli dedicati agli orsi, chiamati con lo stesso titolo, aperti da frasi già usate per raccontare gli animali, un unico racconto circolare più che due paralleli), Szablowski costruisce un mappamondo di «questo maledetto bisogno di doversela cavare da soli». A Cuba c’è una ballerina di salsa che si chiama Anna che dice che «per Fidel ballo, per lui mi metto dei bei fiori nei capelli e lo smalto sulle unghie». Nell’Ucraina che vuole (voleva? Vorrebbe?) entrare nell’Ue la vita non è divisa tra l’oriente russofilo e l’occidente europeista ma tra chi sta da una parte e chi sta dall’altra della dogana, proprio come ai tempi dell’Unione Sovietica: guardie corrotte e contrabbandieri melliflui. A Belgrado si organizzano gite nei luoghi in cui Radovan Karadzic si fingeva Dragan Dabic (Pop-art Radovan, si chiama il tour) e in Albania si cerca di capire che fare con i “funghi di calcestruzzo”, i bunker costruiti nei quarant’anni di dittatura di Enver Hoxha. Nessuno sa nemmeno se siano davvero 750mila come dichiarato al momento della richiesta di ingresso nella Nato, ma durante la guerra civile nell’ex Jugoslavia si è capito che quel calcestruzzo regge a stento sotto la pioggia battente. Che si riqualifichino o si abbattano, ora che il Paese vive di economia di mercato dipende tutto dal prezzo dell’acciaio. Ma chi non rimpiange il comunismo, si è detto, è senza cuore: Besnik Lasku è il proprietario di un’azienda edile che vive della distruzione dei bunker, quei rifugi però li ha costruiti quando da ragazzo era nell’esercito e adesso «mi scende la lacrimuccia. I bunker sono un pezzo della mia vita. Non posso immaginare che un giorno non ci saranno più. E mi fa strano pensare che li stiamo distruggendo per i capitalisti, che al loro posto costruiranno hotel e ristoranti».

Una spiegazione per tutto ce l’ha Georgi Mircev Marinov, bulgaro che nella vita ha prima guidato il trattore in un kolchoz e poi ha addestrato orsi: finita l’Unione Sovietica, prima lo hanno licenziato dal kolchoz e poi gli hanno portato via Valentina, la sua orsa. Ora passa il tempo a “battere il bastone sull’albero”. «C’è un proverbio bulgaro che dice: un orso affamato non balla il horo, che è la nostra danza nazionale. E io sono d’accordo. Se non gli dai da mangiare, non aspettarti che l’animale lavorerà per te».