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08:44 lunedì 27 ottobre 2025
Da quando è uscito “The Fate of Ophelia” di Taylor Swift sono aumentate moltissimo le visite al museo dove si trova il quadro che ha ispirato la canzone Si tratta del Museum Wiesbaden, si trova nell’omonima città tedesca ed è diventato meta di pellegrinaggio per la comunità swiftie.
Yorgos Lanthimos ha detto che dopo Bugonia si prenderà una lunga pausa perché ultimamente ha lavorato troppo ed è stanco Dopo tre film in tre anni ha capito che è il momento di riposare. Era già successo dopo La favorita, film a cui seguirono 5 anni di pausa.
Al caso del furto al Louvre adesso si è aggiunto uno stranissimo personaggio che forse è un detective, forse un passante, forse non esiste È stato fotografato davanti al museo dopo il colpo, vestito elegantissimamente, così tanto che molti pensano sia uno scherzo o un'immagine AI.
L’azienda che ha prodotto il montacarichi usato nel colpo al Louvre sta usando il furto per farsi pubblicità «È stata un'opportunità per noi di utilizzare il museo più famoso e più visitato al mondo per attirare un po' di attenzione sulla nostra azienda», ha detto l'amministratore delegato.
I dinosauri stavano benissimo fino all'arrivo dell'asteroide, dice uno studio Una formazione rocciosa in Nuovo Messico proverebbe che i dinosauri non erano già sulla via dell’estinzione come ipotizzato in precedenza.
Nelle recensioni di Pitchfork verrà aggiunto il voto dei lettori accanto a quello del critico E verrà aggiunta anche una sezione commenti, disponibile non solo per le nuove recensioni ma anche per tutte le 30 mila già pubblicate.
Trump ci tiene così tanto a costruire un’enorme sala da ballo alla Casa Bianca che per farlo ha abbattuto tutta l’ala est, speso 300 milioni e forse violato anche la legge Una sala da ballo che sarà grande 8.361 e, secondo Trump, assolverà a un funzione assolutamente essenziale per la Casa Bianca.
L’episodio di una serie con la più alta valutazione di sempre su Imdb non è più “Ozymandias” di Breaking Bad ma uno stream di Fortnite fatto da IShowSpeed Sulla piattaforma adesso ci sono solo due episodi da 10/10: "Ozymandias" e “Early Stream!”, che però è primo in classifica perché ha ricevuto più voti.

Questi fantasmi

Muore Alan Vega dei Suicide, un'altra icona rock del secolo scorso, e i social sembrano sempre più i sepolcri foscoliani della contemporaneità.

19 Luglio 2016

Muoiono uno dopo l’altro facendo dei social i sepolcri foscoliani della contemporaneità. Sono le rockstar del secolo scorso, il secolo del rock, anagraficamente tutte nate tra la fine degli anni Trenta e la fine degli anni Quaranta. Nel caso di Boruch Alan Bermowitz, meglio conosciuto come Alan Vega, il termine – “rockstar” – è un po’ improprio, se “star” di certo non lo è stato mai e di “rock” possedeva giusto l’intenzione presleyana del cantato e l’ossatura rockabilly di certe composizioni. Siamo qui in un ambito diverso, siamo nel mischione più mitologico che reale della New York degli anni Settanta. Ma, attenzione, non siamo nella New York della new wave, né del suo rovescio strapazzato, la no wave. E neppure nella New York del punk. Alan Vega non era venuto al mondo per fare il musicista e non aveva fondato il duo dei Suicide assieme a Martin Rev per imitare i suoi idoli giovanili.

Era un artista in senso molto ampio: aveva cominciato a farsi notare nei circoli avanguardisti della metropoli americana grazie a installazioni con tubi al neon e aveva pensato alla musica molto tardi, quando aveva capito che era il medium più veloce per arrivare alla gente e far parlare di sé. Nato nel 1938 in un quartiere ebraico, per decenni aveva detto di essere nato nel 1948. Il suo è uno strano caso di uomo invecchiato di dieci anni in un minuto: nel momento in cui ne fu resa pubblica la vera data di nascita, nel 2009. Il rock è la musica delle eccezioni, delle eccentricità, dei cerchi concentrici e allora non deve suonare troppo strano che nella sua mitologia, che ne è il più fedele degli specchi, proprio perché deformante, una cosa in fondo poco rock come i Suicide occupi dei posti possibili il più scomodamente privilegiato: quello del fenomeno di culto. E tra i fenomeni di culto, tra i più di culto in assoluto. Le coordinate sono quelle accennate e non potrebbero che raccontarci questa storia: musicisti non-musicisti, il crogiuolo newyorkese, la famosa urgenza espressiva. E poi: una produzione discografica asciugata, tirata al massimo, pochissime tracce disordinate e sparse lungo tanti anni. Per contro, l’aura del diamante grezzo, dell’avanguardia, del raccontare il proprio tempo standone fieramente fuori, dell’abbattimento dell’opposizione musica-vita.

Le sette tracce dell’esordio omonimo datato 1977, con una copertina tra le più riconoscibili e iconiche di sempre, entrano di diritto tra i testi sacri di un microcosmo che al di là dei generi e dei sottogeneri ha in una capacità generativa transgenerazionale la sua vera forza: si parla di disco seminale per la genealogia rock. Figli dei Velvet Underground (prototipo del gruppo le cui pochissime copie vendute genereranno però tutte altrettante band, secondo la definizione di Brian Eno), figli degli Stooges (che per Vega sono la folgorazione sulla via non di Damasco ma del NY State Pavilion, siamo nel 1969), il fantasma tremolante della voce di Vega e le ruvide staffilate dei synth di Rev, in un gioco di ribaltamenti figura-sfondo, faranno dei Suicide uno di quei nomi che è obbligatorio citare tra le proprie influenze. E se questo appare logico per le orde d’oro del rock alternativo americano degli ultimi trent’anni almeno o per quei gruppi che tanto le analisi formali, quanto i comunicati stampa e le dichiarazioni pubbliche ci raccontano come “figli di” (i Soft Cell di Marc Almond su tutti, teatro di storie parimenti morbose immerse in atmosfere parimenti viziose e viziate), stupisce nel caso in cui le parole di ammirazione provengano da personaggi che non ti aspetti, come Bruce Springsteen o Boy George.

La nervosa ombra lunga dei Suicide arriva fino alle sorprendenti cover di artisti diversissimi tra loro eppure tutti screziati da quegli stessi riflessi, come a dire che oltre il suono del singolo c’è sempre altro: Neneh Cherry che esalta il velluto narcotico di “Dream Baby Dream“, una sorprendente M.I.A. che fa esplodere il motore di Ghost Rider (nella sua “Born Free“), Dirty Beaches che di quel medesimo pezzo manifesto ingigantisce le melmose radici blues. Anche loro oggetto di quelle operazioni retromaniache e avantnostalgiche che da qualche anno spopolano,  ovvero suonare per intero proprio quell’album lì, quello mitologico, Rev e Vega hanno riportato la sigla Suicide sui palchi, stanchi certamente, a tratti, bolsi mai. Vega è morto nel sonno a 78 anni e che abbia trovato finalmente la pace che irrequieto ha cercato per anni stentiamo anche solo ad augurarcelo. La sua morte di appartato guerriero rock è stata annunciata da uno dei suoi tanti figli naturali: Henry Rollins, frontman dei Black Flag, il faro dell’hardcore californiano.

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