Il Plastic e la leggenda di Milano

Dopo il Leoncavallo, dopo Giorgio Armani, Milano dà l'addio a un altro dei suoi simboli, ricordo di un'epoca che appare ormai lontanissima e irripetibile.

09 Settembre 2025

Andy Warhol al bancone del bar vicino a Jean-Michel Basquiat. Keith Haring piegato sulle piastrelle del bagno con un pennarello in mano. Madonna al centro della scena con un paio di tacchi vertiginosi che slittano sul pavimento bagnato. Elio Fiorucci che entra nel locale con a braccetto Vivienne Westwood. E ancora: Stefano Gabbana in consolle con un vinile in mano. Elton John con un paio di occhiali più grandi della pista stessa. Bruce Springsteen con il suo staff dopo un concerto. Freddy Mercury attaccato ad un videogame. Addirittura un giovane Paolo Maldini che viene preso per un orecchio e portato a casa da papà Cesare in persona.

E così, dopo il Leoncavallo e Giorgio Armani, addio anche al Plastic. Davvero, che disastro. Altroché “modello Milano”. Stiamo cadendo a pezzi.

KILLER PLASTIC O

In meno di due settimane, uno dopo l’altro, sono venuti a mancare tre simboli che hanno incarnato, ciascuno a modo suo, la schizofrenia creativa e culturale della città. Il Plastic ha chiuso così, in sordina, con un post su Instagram. Nessuna dichiarazione ufficiale, nessuna spiegazione. Un addio freddo, quasi distratto, come non fosse successo niente. «Che la festa continui», hanno scritto, e tanti saluti. Immediatamente è partito il tam tam sui social, il requiem a colpi di like e condivisioni. Anche se, a dirla tutta, per molti di noi, il Plastic, non esisteva più da tempo. E parlo di quello con l’insegna fluorescente con sopra scritto a caratteri cubitali KILLER PLASTIC O, con la “O” buttata lì alla fine, alla maniera del Jackie O’. In quell’antro di quel vecchio stabile di ringhiera in Viale Umbria 102, affacciato sulla circonvalla, che aveva chiuso i battenti già nel 2012.

«Avrei voluto che nella nuova sede in via Gargano non ci fossimo chiamati più Plastic. Come per dare il segnale che stava iniziando una nuova storia», aveva dichiarato il patron Lucio Nisi, all’inizio del documentario di Patrizio Currò This is Plastic, che raccontava l’epopea del locale più mitologico della città prima del trasferimento. Ma poi aveva prevalso l’identità, la tradizione, perché in realtà nessuno era disposto a rinunciare a quel nome. E così, anche nella nuova sede, il club si portò dietro la propria leggenda ribattezzandosi semplicemente Plastic Palace. Il trasloco non cancellò nulla, anzi amplificò il mito. Cambiava l’indirizzo ma non il DNA.

Il locale aprì i battenti in una fredda notte d’inverno del 1980, precisamente il 23 dicembre, antivigilia di Natale. A inventarselo furono Nicola Guiducci, dj e art director, e Lino Nisi, fratello di Lucio. L’idea era semplice e radicale al tempo stesso: fare qualcosa che a Milano non c’era. Non l’ennesima discoteca borghese arredata in maniera orribile con le poltrone di pelle e i laser verdi, ma un club. Un semplice rettangolo nero con due casse, due giradischi e un mixer portato da casa. Un rifugio sotterraneo sul modello di quelli che Guiducci aveva visto a New York e a Londra. Un posto sporco, magnetico, libero, dove i dark potessero stare accanto ai figli di papà, i punk ai gay, le modelle alle drag queen. «A volte essere se stessi è l’atto più politico che si possa commettere», diceva Boy George.

No effort, no entry

Era l’unico posto in città in cui poter andare a ballare veramente, il Plastic. L’eccezione che confermava la regola. La fila era sempre lì, congelata nel buio ad aspettare: doppiopetti di velluto blu elettrico accanto a bomber militari sformati, bombette lise accanto a cappelli da cowboy. Ragazze con calze a rete sopra le Dr. Martens, ragazzi con l’eyeliner storto e le camicie di seta. Una parata grottesca e ultra colorata, in attesa del verdetto della porta. Fin dal giorno della sua apertura, una delle peculiarità del posto, infatti, fu proprio il criterio di ammissione al club: “No effort, no entry” (niente sforzo, niente ingresso).

Sulla falsa riga di quello che faceva Steve Strange, al Blitz di Londra, che aveva trasformato il controllo dell’ingresso in una performance artistica, mostrando uno specchio ai candidati  e chiedendo: «Ti faresti entrare?». Al Plastic la filosofia, nonostante l’assenza di specchi, era altrettanto cristallina. Non un controllo, ma un giudizio. Nessun cartello, nessun manifesto estetico, nessun regolamento: solo lo sguardo gelido del door selector e tre verdetti possibili: tu sì, tu no, tu mai. Dentro la star assoluta era sempre e solo Nicola: uno capace di aprire con Todd Terje e subito dopo infilarti Etta James. Uno che poteva mischiare i Deep Dish a Moroder, buttarti addosso i Cabaret Voltaire e poi, come se niente fosse, scivolare su Bruno Lauzi, “Onda su onda”, cantata a squarciagola da gente che non aveva mai ascoltato Lauzi in vita sua. Il pavimento che tremava, le pareti che sudavano, la sala che ondeggiava come una nave in tempesta.

Tutt’intorno la strobo apriva finestre e subito le richiudeva: un ragazzo in kilt che contava i passi a voce alta, una lampada al neon che sfarfallava sopra l’uscita di sicurezza, il bancone pieno di bicchieri molli, il gin rovesciato che colava a terra, la puzza di ammoniaca e lacca mescolate. Tra gruppi di modelle che fumavano Marlboro Lights in cerchio con il mascara colato sul volto, un cartello “Vietato fumare” imbrattato di rossetto, e ragazze trans vestite come Maria Antonietta, ma con in testa delle parrucche blu.

Questo era per noi, e per almeno due/tre generazioni prima della mia, quel luogo, famoso in tutto il mondo, all’interno del quale sembrava potesse accadere qualunque cosa. Tutti lì, dove, da oltre quarantacinque anni, si incontravano creatività e nuove tendenze, «in quello che non è solo una discoteca ma un luogo dove  personaggi italiani e stranieri hanno fatto la storia della moda e dell’arte». Come tra l’altro stava scritto testualmente sull’attestato di benemerenza civica che il Comune di Milano siglò quando nel 2009 gli consegnò l’Ambrogino d’oro. Era questo, il Plastic: voci, apparizioni, leggende. Ennesimo simbolo, bizzarro e lucente, di una Milano irripetibile che, uno dopo l’altro, sta perdendo i suoi pezzi migliori, mentre si va concludendo quella che è stata, forse, una delle sue estati più terribili.

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