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14:31 lunedì 17 novembre 2025
Vine sta per tornare e sarà il primo social apertamente anti AI Jack Dorsey, il fondatore di Twitter, ha deciso di resuscitarlo. A una condizione: sarà vietato qualsiasi contenuto generato con l'intelligenza artificiale.
C’è una app che permette di parlare con avatar AI dei propri amici e parenti morti, e ovviamente non piace a nessuno Se vi ricorda un episodio di Black Mirror è perché c'è un episodio di Black Mirror in cui si racconta una storia quasi identica. Non andava a finire bene.
In Cina Wong Kar-wai è al centro di uno scandalo perché il suo assistente personale lo ha accusato di trattarlo male Gu Er (pseudonimo di Cheng Junnian) ha detto che Kar-wai lo pagava poco, lo faceva lavorare tantissimo e lo insultava anche, in maniera del tutto gratuita.
In Giappone un’azienda si è inventata i macho caregiver, dei culturisti che fanno da badanti agli anziani Un'iniziativa che dovrebbe attrarre giovani lavoratori verso una professione in forte crisi: in Giappone ci sono infatti troppi anziani e troppi pochi caregiver.
Rosalía ha condiviso su Instagram un meme buongiornissimo in cui ci sono lei e Valeria Marini  Cielo azzurro, nuvole, candele, tazza di caffè, Rosalia suora e Valeria Marini estasiata: «Non sono una santa, però sono blessed», si legge nel meme.
Hideo Kojima si è “giustificato” per la sua foto al Lucca Comics con Zerocalcare dicendo che l’ha fatta senza sapere chi fosse Zerocalcare Non c’era alcuna «intenzione di esprimere sostegno a nessuna opinione o posizione» da parte di Kojima, si legge nel comunicato stampa della Kojima Productions.
Anche Charli XCX si è messa a scrivere su Substack Il suo primo post si intitola "Running on the spot of a dream" e parla di blocco della scrittrice/musicista/artista.
A poche ore dalla vittoria al Booker Prize è stato annunciato che Nella carne di David Szalay diventerà un film Ad acquisire i diritti di trasposizione del romanzo sono stati i produttori di Conclave, noti per il loro fiuto in fatto di adattamenti letterari.

Perché Mindhunter è una serie diversa dalle altre

La serie di Netflix prodotta da Fincher ha una struttura narrativa insolita: ecco perché bisogna vederla.

18 Ottobre 2017

Cosa rende un film sui serial killer immediatamente riconoscibile? Forse il sopralluogo del protagonista sulla scena del crimine: una casa ampia e luminosa dove una famiglia viveva felicemente. Oppure  l’immancabile scena dell’autopsia: l’espressione sul volto della vittima trasmette un senso di calma, ma le parole del medico evocano una morte violenta che non possiamo fare a meno di immaginare. Altri elementi ricorrenti sono la caccia all’uomo, la corsa contro il tempo prima che l’assassino torni a uccidere, un amico in pericolo, l’intreccio tra alto e basso, come i delinquenti da due soldi che filano con i politici di alto rango. Ebbene, tutto questo in Mindhunter non c’è, nonostante i serial killer siano al centro del racconto.

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Quando Charlize Theron, una dei produttori della serie di Netflix, ha messo sul tavolo di David Fincher il libro Mindhunter: Inside the FBI’s Elite Crime Unit, Fincher, autore anche di Se7en, ha detto: «Serial killer? Charlize, per favore», nel senso di «Charlize, per favore, che palle i serial killer». Quel che davvero lo ha affascinato della lettura, ha detto il regista al Financial Times, sono stati gli sforzi di alcune menti dell’Fbi per far nascere la moderna psicologia criminale negli anni Settanta, mentre la burocrazia e una mentalità conservatrice remavano contro. Nel corso della serie assistiamo agli screzi tra i capi dell’agenzia e i due protagonisti o al muro di separazione tra l’Fbi e le università: la prima chiamata a mantenere l’ordine, le seconde agitate della contestazione studentesca. Assistiamo anche a discussioni sul metodo: è meglio improvvisare ogni intervista o fare a tutti i killer le stesse identiche domande? Entrare in Mindhunter è davvero come aprire un manuale di psicologia criminale. La parte teorica è l’interrogatorio con l’assassino: un tour de force di campi e controcampi in cui la forza drammatica è affidata interamente al dialogo. La parte pratica è il caso investigativo, in cui ciò che abbiamo imparato dal serial killer di prima torna riflesso in un secondo omicida. Tutto questo è stato calato in un intreccio di trame e sottotrame che iniziano e finiscono nell’arco di una puntata, o che si aprono a metà stagione e si chiudono ben prima dell’ultimo episodio (e a volte non si chiudono proprio).

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Alcune testate internazionali hanno esaltato la serie ma criticandone l’inizio. Secondo Vox, ad esempio, una partenza poco decisa lascia lo spettatore confuso riguardo alla direzione del racconto. L’intera struttura è disarticolata e c’è poco di trasversale nelle dieci puntate. Molte scene, invece, sono organizzate attorno a un tavolo e si presentano quasi come una variazione sul tema: i poliziotti diventano sempre più bravi a fare le domande giuste, mentre ogni interrogatorio è una raccapricciante incursione nella testa di un mostro con uno specifico profilo piscologico. In questo, Mindhunter ricorda Zodiac, un flop e il film più bello di Fincher, che ha la struttura aperta e confusa di un’inchiesta giornalistica che non arriva da nessuna parte.

Cosa tiene insieme gli episodi? La risposta arriva nel finale di stagione, quando realizziamo di aver accompagnato i protagonisti in un lungo processo di maturazione, e di essere entrati in contatto con un ampio catalogo di menti criminali. A parte questo, Mindhunter non dà molti incentivi per andare avanti, è quasi un vecchio telefilm con gli episodi a sé stanti. Non c’è un vero crescendo, né una trama incalzante, ed è per questo che mancano cliffhanger entusiasmanti. Probabilmente è la conseguenza (non necessariamente negativa) di un approccio serio e riflessivo alla psicologia criminale.

Prima degli anni Settanta c’erano Norman Bates o il mostro di Düsseldorf, ma ancora non esistevano i dialoghi degli incontri tra Hannibal Lecter e la poliziotta Clarice («Che cosa fa quest’uomo che cerchi, Clarice?» «Uccide le donne» «No, questo è accidentale. Qual è la principale cosa che fa? Uccidendo che bisogni soddisfa?») o l’ossessione per le uccisioni rituali degli anni Ottanta e Novanta. Tenendo fuori il luogo del delitto (che raramente vediamo) i cadaveri (che osserviamo solo in foto), la corsa contro il tempo e tanto altro, Mindhunter cancella i modi di raccontare quelle storie, cioè i codici del sottogenere delle uccisioni seriali. E allora cosa resta? Restano le ore passate in prigione ad ascoltare l’omicida parlare di sé, i nastri delle registrazioni, la ricerca, lo studio, l’impresa, l’immedesimazione nel mostro che esorcizza i nostri istinti peggiori. In altre parole, prima del filone sui serial killer, c’è solo la fascinazione nei confronti di quello che sarebbe diventato un mito moderno. Ed è lì che esiste Mindhunter.

foto Mindhunter
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