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Da quando è uscito “The Fate of Ophelia” di Taylor Swift sono aumentate moltissimo le visite al museo dove si trova il quadro che ha ispirato la canzone Si tratta del Museum Wiesbaden, si trova nell’omonima città tedesca ed è diventato meta di pellegrinaggio per la comunità swiftie.
Yorgos Lanthimos ha detto che dopo Bugonia si prenderà una lunga pausa perché ultimamente ha lavorato troppo ed è stanco Dopo tre film in tre anni ha capito che è il momento di riposare. Era già successo dopo La favorita, film a cui seguirono 5 anni di pausa.
Al caso del furto al Louvre adesso si è aggiunto uno stranissimo personaggio che forse è un detective, forse un passante, forse non esiste È stato fotografato davanti al museo dopo il colpo, vestito elegantissimamente, così tanto che molti pensano sia uno scherzo o un'immagine AI.
L’azienda che ha prodotto il montacarichi usato nel colpo al Louvre sta usando il furto per farsi pubblicità «È stata un'opportunità per noi di utilizzare il museo più famoso e più visitato al mondo per attirare un po' di attenzione sulla nostra azienda», ha detto l'amministratore delegato.
I dinosauri stavano benissimo fino all'arrivo dell'asteroide, dice uno studio Una formazione rocciosa in Nuovo Messico proverebbe che i dinosauri non erano già sulla via dell’estinzione come ipotizzato in precedenza.
Nelle recensioni di Pitchfork verrà aggiunto il voto dei lettori accanto a quello del critico E verrà aggiunta anche una sezione commenti, disponibile non solo per le nuove recensioni ma anche per tutte le 30 mila già pubblicate.
Trump ci tiene così tanto a costruire un’enorme sala da ballo alla Casa Bianca che per farlo ha abbattuto tutta l’ala est, speso 300 milioni e forse violato anche la legge Una sala da ballo che sarà grande 8.361 e, secondo Trump, assolverà a un funzione assolutamente essenziale per la Casa Bianca.
L’episodio di una serie con la più alta valutazione di sempre su Imdb non è più “Ozymandias” di Breaking Bad ma uno stream di Fortnite fatto da IShowSpeed Sulla piattaforma adesso ci sono solo due episodi da 10/10: "Ozymandias" e “Early Stream!”, che però è primo in classifica perché ha ricevuto più voti.

Pennac, gli anni Novanta e noi

Malaussène torna in libreria e ci riporta alla mente un'epoca in cui la sinistra era i tascabili Feltrinelli, i film di Salvatores, i vhs dell'Unità.

04 Maggio 2017

Sono passati vent’anni. È stato un colpo al cuore ma, quando ce ne siamo resi conto, abbiamo fatto quello che bisognava fare: abbiamo iniziato a storicizzare gli anni Novanta. Abbiamo storicizzato la musica, col ventennale del britpop, abbiamo storicizzato i telefilm e la tv. Storicizziamo Tangentopoli e la stagione delle stragi, tra film d’autore e serie Sky, e addirittura la politica, con la chiusura naturale della parabola di alcuni protagonisti italiani che ci siamo trascinati molto più in là del Duemila. Lentamente (e con tutte le difficoltà del caso, quando si tratta di prendere la giusta distanza da noi, e dalla nostra giovinezza), stiamo tirando le somme di un’epoca che ha avuto, sì, strascichi, ma che oggi ci sembra definitivamente conclusa: sembra Storia. Ma, se tanti aspetti di quell’età di passaggio tra un secolo e l’altro, tra una Repubblica e l’altra, emergono chiari, altri stentano. Non tanto perché siano difficili da giudicare, ma perché a volte non li vediamo neppure, non ricordiamo di averli vissuti. E non si tratta di eventi, ma di climi, atmosfere, spiriti vaghi di quell’epoca che tuttavia ebbero un’importanza cruciale.

Per dire, ecco: è uscito l’ultimo libro di Daniel Pennac. Non un libro fra tanti, ma un evento: il ritorno del suo personaggio più classico, Benjamin Malaussène. Dopo quasi vent’anni da La passione secondo Thérèse, va in libreria per Feltrinelli il primo volume de Il caso Malaussène – Mi hanno mentito. E la nostalgia pazza, unita al senso d’invecchiamento, ci fa ricordare di un momento preciso del passato recente. Un momento difficile da definire e inquadrare, ma che aveva a che fare con la sinistra, la cultura, l’Italia. E con gli economici Feltrinelli, in sostanza.

venezia

Di che parlo? Di una temperie intellettuale. Di un sentimento. Di un pantheon. Di cui ci potremmo ricordare anche soltanto facendo dei nomi. Ad esempio: i romanzi di Daniel Pennac, appunto. L’improvvisa fortuna di Banana Yoshimoto. Il Sudamerica del trittico Jorge Amado, Isabel Allende e Luis Sepúlveda. Stefano Benni, e “Smemoranda”. Il cinema di Gabriele Salvatores e le videocassette dell’Unità di Veltroni. Il premio Nobel a Dario Fo. Ognuno potrà completare la lista, chiudendo gli occhi e ripensando a un certo profumo, a un certo aspetto degli scaffali dell’epoca, a uno Zeitgeist che potremmo riassumere così: ci fu un tempo in cui, all’ideologia, si sostituì la libreria. Un tempo in cui, alle magliette del Che, si sostituirono le t-shirt con le citazioni dei romanzi e dei film. Un tempo in cui all’orizzonte politico si sostituì la proposta culturale. E una cultura – nota bene – non tecnicamente ideologizzata, come sarebbe facile sminuire. Il punto era invece precisamente l’opposto: una stagione in cui la cultura (non quella impegnata, ma quella lieve, leggera, creativa) veniva caricata di un valore politico. Una stagione in cui dal citazionismo, dalla memoria, e dalle ultime novità in libreria, il centrosinistra pescava i suoi miti. Avvenne insomma – suppongo, per la prima volta nella Storia – che film e romanzi non strettamente politici assunsero un ruolo identitario per un intero schieramento politico. E Daniel Pennac, assieme a tanti altri come lui, da onesti e anche ottimi scrittori, divennero numi tutelari partitici.

Se si dovesse provare a spiegare, racconteremmo l’Italia di quegli anni così: l’Unione Sovietica era appena crollata, e la sinistra italiana si ritrovava a domandarsi quale diamine fosse la sua identità, ovvero, come si diceva allora, il suo grande album di famiglia. Dal punto di vista strettamente politico, si salvavano solo i fuoriusciti, gli esclusi: Gramsci e Guevara, poco altro. Ma, dato che a destra regnava già Silvio (identificato come una sorta di vuoto pneumatico intellettuale), e dato che molto del passato non poteva più essere utilizzato come modello, né pratico né esplicito, nacque una smania identitaria che andava a pescare da lidi curiosi. Dalla commedia all’italiana e dal teatro. Dal Piccolo Principe o da La casa degli spiriti. Dal Messico di Cacucci o da Francesco De Gregori unplugged. Dai vhs di Easy Rider e del Grande Freddo di Veltroni, e dal Gabbiano Jonathan Livingston, e dalla Storia di una gabbianella e del gatto che le insegnò a volare. E c’era il giallo di provincia, c’era il bar sport, l’Emilia Romagna. E Caracas. Così, per la media borghesia italiana, anche i romanzi di Daniel Pennac – un po’ come i primi Camilleri, o come la nascita del Benigni d’autore – non rappresentavano soltanto dei libri piacevolissimi, ironici, fantasiosi e garbati (questo erano, e sono), ma una questione di appartenenza, una speranza, e un manifesto. Si trattava, in sostanza, della domanda: «Chi siamo?», e la risposta solare diceva: “Lettori”. Oppure: “Fruitori culturali”. Ma vasti. Lettori contro ciò che sembrava un attacco al passato, una tabula rasa di valori, di principi, di cinquant’anni di storia d’Italia: l’uomo nuovo, la seconda Repubblica… Però lettori leggeri, minimalisti, ironici, d’intrattenimento. Non era più ai grandi ideologi che si guardava, ma ai narratori, ai giallisti, ai comici. Ecco, sì, questa era la nostra cultura. Questa la nostra identità.

A Roman couples rides a moped without helmet in th

Il punto non erano le opinioni politiche dei diretti interessati. Certo, gli anni Novanta (e forse i primi del Duemila) furono gli ultimi a riproporre con forza il ruolo dell’intellettuale engagé. Parlare di politica, dire la propria su Berlusconi e l’Italia, era qualcosa di richiesto a qualsiasi scrittore internazionale, dal portoghese Saramago, ai maestri francesi, cileni, tokyensi, mentre i Democratici candidavano alle europee autori come Tahar Ben Jelloun (ma perché?). Piuttosto, la cosa interessante era come la cultura fosse recepita da parte del pubblico bene e medio-intellettuale. Se analizziamo lo spirito di questo strano pantheon che si era venuto a creare, ci accorgiamo della sua contraddittorietà, della sua vaghezza, retta soltanto dalla poetica della Grande Chiesa che andava fino a Madre Teresa: l’ecumenismo, ma a vanvera. Sinistra era l’India di Siddartha. Sinistra era l’epopea familiare sudamericana. Sinistra era il realismo magico brasiliano. Sinistra era la provincia della piadina, o l’ispettore Carvalho, o la poetica della fuga in Marocco. Non aveva molto senso, ovviamente. Non poteva certo essere un manifesto programmatico: e di cosa?

E tuttavia lo riconosciamo, perché questa grande operazione ecumenica culturale, libraria, cinematografica, è quella che, nel nuovo millennio, ha costituito la sostanza del veltronismo, finendo forse, addirittura, nel lato estetico della Leopolda. Un’operazione che, alle proposte ideologiche, sostituiva una memoria, a volte inventata (che cosa diamine portava a riconoscere come “nostro” L’Alchimista di Coehlo o le memorie domestiche argentine?), ma che aiutava a formare una famiglia mentale, adottiva. Ci si convinceva, forse, che l’identità della sinistra italiana non fosse mai stata quella dell’Urss, che ci era sempre stata antipatica. No, la sinistra, si diceva, era stata in realtà, essenzialmente, la forza lettrice del Paese. O, al limite, quella delle tradizioni contadine, con le fisarmoniche dei Modena City Ramblers; ma non conveniva troppo insistere sul fronte del popolo, perché la gente comune ci era stata scippata da destra, dalla tv e dalla Lega. Macché: la sinistra era la casa del ricordo, dell’infanzia, dei padri nobili, e della narrativa di qualità.

About fifty Albanians attempt to flee on

Gli effetti furono molteplici. Da una parte, una stagione di iperproduttività senza pari. Un momento felice per l’editoria e per il cinema, una proposta continua di novità e qualità e spazi culturali che oggi non ha paragone: gli anni Novanta come momento di gloria. Dall’altra una sensazione strana: la nascita dell’idea di sinistra come categoria antropologica “alta”. E in quell’universo, certi romanzi, certi film, non fungevano da strumento di analisi, ma di riconoscimento, di autorappresentazione, da bandiera. Se a destra il modello era il vincente, il rampante, a sinistra qual era? Beh, lo sconfitto resistente: il Malaussène che subiva, l’eroe salvatoresiano che fuggiva, il commissario rabberciato, MA… ma che conservava un’integrità intellettuale e un’umanità pura, con tutti i suoi sogni perduti. Oggi guardiamo al signor Malaussène, un po’ invecchiato. Lo guardiamo da un tempo in cui molte cose sono cambiate; in cui l’idillio tra narratori e sinistra governativa si è infranto, e in cui anche la Francia (e l’Argentina, e il Cile, e il Marocco) non sembrano avere poi granché da insegnarci. Lo guardiamo pensando che confondere narrativa e ideologia non poteva che essere finzione. Ma abbiamo almeno la speranza di riportarlo al suo ruolo romanzesco: quello di capro espiatorio. L’avevamo frainteso. Noi l’avevamo esaltato. Per una strana, ma lunga stagione, l’avevamo eletto segretario.

In testata: particolare della copertina del Paradiso degli orchi (Feltrinelli). Nelle foto: tre immagini dell’Italia negli anni Novanta (Getty Images).
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