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Nicole Krauss sul confine tra finzione e identità

Abbiamo incontrato la scrittrice newyorchese, che nel suo ultimo libro, Selva Oscura, ha usato se stessa come cavia.

26 Marzo 2018

Un uomo e una donna, due ebrei americani, vanno in Israele. Come Dante, si ritrovano per una selva oscura, però a differenza di Dante si perdono di proposito: fuggono dalla retta via, certo, ma anche dalle linee rette, da un’idea coerente del sé. Lui si chiama Jules Epstein, è un anziano miliardario còlto da un’improvvisa smania di dare via tutti i propri averi. Lei è una scrittrice quarantenne di successo che vive a Brooklyn e si sta separando dal marito: si chiama Nicole, anche se il nome compare soltanto una volta e fa capolino, guarda caso, nel bel mezzo di un episodio dove finzione e realtà si confondono. Anche l’autrice di Selva Oscura si chiama Nicole, vive a Brooklyn ed è una delle scrittrici più affermate della sua generazione: per Nicole Krauss, classe 1974 e già autrice di tre romanzi di successo tra cui La storia dell’amore, questo è il primo libro pubblicato dopo il suo divorzio da Jonathan Safran Foer. Di questo romanzo, appena pubblicato in Italia a Guanda nella traduzione di Federica Oddera e uscito in inglese lo scorso anno, si parlava già dal 2015, quando uscirono le prime indiscrezioni secondo cui Krauss, che pubblica sul New Yorker, Harper’s ed Esquire, avrebbe ottenuto da Harper un anticipo da quattro milioni di dollari.

L’idea di dare un nome, quel nome, alla protagonista è arrivata soltanto quando la prima stesura era già completa, mi ha raccontato Krauss, quando l’ho incontrata in un hotel milanese a metà marzo. È stato un modo di scoprire le carte, di porre al lettore una domanda sull’identità come finzione e sulla finzione come identità: «Sappiamo che il sé è un processo creativo, è una storia che ci raccontiamo. Così mi sono detta: perché non facciamo questa conversazione apertamente? A lungo il mio personaggio è rimasto senza nome, poi ho deciso di usare me stessa come cavia e di vedere cosa decideva di farci il lettore». Con Krauss, che in quei giorni era in Italia per promuovere il libro, parliamo a lungo di un argomento che mi ha sempre affascinato, e che evidentemente interessa parecchio anche a lei: il rapporto tra letteratura e neuroscienze. «La scienza dice che la memoria è un processo creativo. Il cervello ha una memoria narrativa, non ha accesso a una memoria storica», dice Krauss. È più o meno quello che dicono scienziati come Jerome Bruner e Daniel Dennett: siamo le storie che ci raccontiamo, o, meglio, riusciamoci a farci un’idea di qualcosa soltanto quando lo trasformiamo in storia.

Verso metà del romanzo, un tizio dice alla Nicole-personaggio che «i suoi romanzi sono belli, però lei non fa una buona impressione nelle interviste». Lo stesso si potrebbe dire della Nicole-scrittrice, che di persona dice cose interessanti, ma che le dice molto meglio nei suoi libri. Del resto distinguere la Nicole-scrittrice dalla Nicole-personaggio è difficile, anche perché la Nicole-scrittrice, almeno per chi si interessa di un certo tipo di mondo letterario, è un personaggio di per sé. Del fatto che Selva Oscura parli anche, indirettamente, del suo divorzio si sono dette molte cose, a volte persino un po’ crudeli: sul Washington Post Ron Charles l’ha definito un «atto di vendetta letteraria», e forse un fondo di verità c’è, eppure mi domando come mai nessuno abbia detto la stessa cosa quando è uscito Eccomi di Foer. Anche quello, dopotutto, era un romanzo platealmente post-divorzio, anzi, coincidenza interessante, era pure quello un romanzo post-separazione che parlava d’Israele.

Selva Oscura è, in mancanza di altri termini per definirlo, un romanzo, ma è anche un trattato su memoria, identità, sulla coscienza umana che si scompone e, per sua natura, cerca di ricomporsi, non sempre con successo: «Non è meraviglioso quante forme possa prendere un romanzo? Che mi risulti, nessuno è ancora riuscito a stabilire i confini precisi del romanzo», dice l’autrice. Sul New York Times Peter Orner l’ha paragonato ad Austerlitz di W.G. Sebald. Sul Financial Times Francesca Segal faceva notare che, in questo contesto, Krauss riesce a essere «una poetessa e una filosofa», e un po’ mi ha fatto ripensare a quello che un’autrice russa mi aveva detto sul come, nel suo Paese, sia stata la letteratura a occuparsi veramente di filosofia: non c’è bisogno di Feuerbach se c’è Dostoevskij. In Selva Oscura abbondano i riferimenti a Freud (e in particolare alle sue teorie sul Unheimliche, il perturbante), a Kafka (su Kafka, a dire il vero, c’è tutta una sotto-trama interessante) e alla teoria del multiverso, all’ipotesi che tante realtà potrebbero coesistere.

Quello che fanno i due protagonisti, Epstein e Nicole-che-non-è-proprio-Nicole, è decostruire un’idea di sé, come a sottolineare quanto sia fragile in partenza. Quello che Krauss sembra suggerire è che tutta la nostra vita, per come ne facciamo esperienza, è un affare piuttosto fragile, difficilmente separabile dalla finzione. Viviamo in un multiverso, dove le nostre vite sono quello che sono e sono anche quello che avrebbero potuto essere. È un’attitudine che, devo dire, mi mette un po’ a disagio, specie in questi anni, quando la post-verità comincia a fare paura e certe idee postmoderne cominciano a passare di moda. Ecco, io avrei tanto bisogno di aggrapparmi alla «verità fattuale», come la chiamava Hanna Arendt, e salta fuori la Krauss con questa cosa qui. Però la cosa interessante è che in Selva Oscura la verità fattuale non manca. I fatti sono fatti, i luoghi sono luoghi, i personaggi pubblici sono personaggi pubblici: c’è Tel Aviv, con i suoi edifici brutalisti, ci sono Shimon Peres, Abu Mazen, Madeleine Albright e Zubin Mehta, ci sono i razzi d’artiglieria effettivamente lanciati dalla striscia di Gaza. C’è una memoria storica, insomma. Però il cervello dei protagonisti, come in nostro del resto, funziona in modo narrativo.

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