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Il naoji jiekou, la risposta cinese a Neuralink di Elon Musk

Anche la Cina sta investendo sulla sua Brain computer interface: sarà la battaglia tecnologica dei prossimi anni, una gara tra le aziende di Big Tech e il Partito comunista.

di Simone Pieranni

L’annuncio cinese è stato fatto in sordina, infatti non se ne era accorto praticamente nessuno. Io l’ho scoperto per caso: dopo aver letto il tweet di Elon Musk nel quale annunciava che il primo impianto (chiamato Telepathy) della sua azienda Neuralink, era stato inserito nel cervello di un essere umano, sono andato subito su Baidu, il principale motore di ricerca cinese, e ho inserito i caratteri 脑机接口, ovvero naoji jiekou (interfaccia cervello computer). In realtà volevo solo vedere quali fossero i commenti dei siti tech e scientifici cinesi su Musk, e invece ho scoperto che esattamente otto ore dopo l’annuncio di Musk era uscito un comunicato dell’università Tsinghua di Pechino (una delle più importanti della Cina, quella dove si forma l’élite politica, economica e scientifica del Paese). Il comunicato ricordava sommessamente una cosa: che un intervento chirurgico del genere, per quanto con un impianto meno invasivo e con caratteristiche differenti, era già stato effettuato in Cina a ottobre del 2023. Nel frattempo avevo aperto una dozzina di tab, perché non mi aspettavo certo di scoprire per caso una cosa del genere. Non è tanto da “Cina di Xi Jinping” dire sottovoce una cosa così, cioè di aver fatto un esperimento decisamente rilevante prima di un’azienda privata americana. Mentre aspettavo il caricamento delle altre schede, ho continuato a leggere il comunicato: i ricercatori cinesi hanno scritto che il paziente sui cui è stato effettuato l’intervento, una persona paralizzata da 14 anni in seguito a un incidente stradale, stava reagendo bene e che anzi, era in grado di bere da solo maneggiando una bottiglia d’acqua, grazie a un guanto collegato in modalità wireless all’impianto cerebrale.

A quel punto sono andato a leggere gli articoli dei media cinesi che hanno ripreso la notizia. E anche in questo caso, ho notato una insolita sobrietà. È che questo settore, delle cosiddette BCI – “Brain computer interface” – è la nuova frontiera del confronto tecnologico tra Cina e Stati Uniti e alla fine di tutte le letture di media, centri di ricerca, opinioni di ricercatori, esperti, ho capito da cosa derivava questa poca enfasi. I cinesi sanno con certezza una cosa: che su questo tipo di tecnologia sono indietro. Su Qianzhan, un sito cinese di economia e informatica, non hanno usato parafrasi. Dopo aver ricordato l’impresa della Tsinghua l’autore dell’articolo ha ammonito: «L’industria BCI in Cina è iniziata tardi e c’è un divario tra i cinque e i dieci anni con i Paesi stranieri». Nonostante il ritardo ammesso dagli stessi cinesi, Pechino in realtà ha inserito da tempo le BCI tra le priorità della sua ricerca scientifica. Da almeno un anno è attivo un laboratorio a Tianjin dove sessanta scienziati lavorano proprio per provare a colmare il gap con il resto del mondo. E nel documento pubblicato a inizio gennaio 2024 dal ministero della Scienza e Tecnologia cinese, il settore BCI è tra i sette considerati più rilevanti per il Partito comunista (insieme al 6G, ai computer quantistici e ai “robot umanoidi”, tra gli altri).

Il tema relativo alle BCI, del resto, è un argomento caldo nelle comunità scientifiche di tutto il mondo da molto tempo. Ma come è avvenuto con l’avvento di ChatGPT, con la nostra curiosità puntata sulle risposte sgangherate del bot, anche per le BIC non dovremmo limitarci alla sola osservazione dei primi esperimenti: se è vero che ad ora questi progetti si tingono di un’aura umanitaria, per recuperare i movimenti di persone che per diversi motivi non possono muoversi, è altrettanto vero che quando si parla di “leggere la mente”, “collegare il pensiero a un computer”, i governi pensano a una cosa sola: il comparto securitario, quello militare e la possibilità di dotarsi di strumenti innovativi e sempre più avanzati e potenzialmente letali per fare guerra.

Per questo sul tema non ci sarà da aspettarsi quella cooperazione tra Stati e scienziati che di solito permette a queste tecnologie di compiere importanti balzi in avanti, non fosse altro che mentre in Cina è lo Stato a portare avanti queste ricerche, nel mondo occidentale i protagonisti sembrano essere più i privati. E così, pur avendo annunciato in modo misurato di avere preceduto Musk, i ricercatori cinesi hanno tenuto a precisare le differenze del loro impianto rispetto a Telepathy, sottolineandone la maggior sicurezza e durata. Intanto l’impianto non ha bisogno di batteria (si alimenta attraverso il sistema wireless), e può quindi funzionare sempre. Inoltre il suo posizionamento nel cranio di una persona (e non nei tessuti) è meno invasivo di quello di Neuralink, il che dovrebbe evitare possibili problemi al paziente. Insomma, la comunità scientifica cinese è cauta e ottimista e come ormai succede per qualsiasi avanzamento di questo tipo, non poteva mancare l’intervento statale. Non è una novità, di neurodiritti si parla molto anche dalle nostre parti.

Nel giro di pochi giorni, dall’annuncio di Musk a quello dell’università di Pechino, in Cina è uscita una proposta per un codice etico che punta a regolamentare questo tipo di innovazione. E lo fa con le consuete caratteristiche cinesi, che tengono conto del doppio approccio del Partito comunista rispetto a queste novità scientifiche: da un lato c’è una spinta a insistere, perché ogni innovazione fornisce un avanzamento del posizionamento internazionale della Cina sui mercati globali; dall’altro c’è la necessità di controllarne lo sviluppo e mettere dei paletti all’utilizzo di questo strumenti. Se arriverà un momento nel quale grazie a un chip impiantato nel cervello si potranno controllare i pensieri, le intenzioni, i sentimenti delle persone, il primo fruitore di tutto questo non potrà che essere il Partito comunista cinese.