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Nadia Owusu, come il terremoto

Una vita tra Tanzania, Italia, Etiopia, Inghilterra, Uganda e Ghana, l'infanzia privilegiata e la gioventù senza soldi, le fratture della famiglia e la ricerca di un luogo che sia casa: intervista all'autrice di Scosse di assestamento, da poco uscito in Italia per NR Edizioni.

28 Luglio 2022

Nadia Owusu è nata a Dar es Salaam, in Tanzania; è cresciuta tra Italia, Etiopia, Inghilterra, Uganda e Ghana, e oggi vive con il marito musicista a New York, dove si occupa di politiche urbane: «Il mio lavoro consiste nel cercare di migliorare le situazioni di povertà e diseguaglianza abitativa nelle grandi città degli Stati Uniti», dice Owusu con un largo sorriso limpido in videochiamata dalla sua casa newyorkese. «Mi prendo cura di educazione e inclusione, accesso alla sanità, verde urbano. Mi interrogo su quali elementi facciano di un posto una casa, su come le persone interagiscano tra loro e con i luoghi che le ospitano, sul senso di appartenenza. Rifletto su identità, storia, razza e trauma e sul loro modo di agire sui nostri corpi. Sono questioni che ho sempre sentito come importanti, e che hanno un forte legame con i temi di cui scrivo».

Owusu si riferisce ad Aftershocks, il suo straordinario romanzo per frammenti e onde sismiche di memoria, strutturato intorno ai termini per definire i postumi dei terremoti, appena pubblicato in Italia da NR Edizioni con il titolo Scosse di assestamento (in una traduzione impeccabile di Sara Marzullo). In Scosse di assestamento Owusu racconta la propria storia e cerca di ricostruire quella della sua famiglia. Inizia con una frattura: la madre, americana di origine armene, se ne va di casa quando Nadia ha due anni, lasciando lei e la sorellina con il padre ghanese e la sua nuova moglie, che ha per le bambine dei sentimenti a dir poco ambivalenti. Con il padre, che lavora per le Nazioni Unite, Owusu ha un legame forte. Il padre cerca di fare del suo meglio per darle un’educazione affettiva, culturale e politica, le insegna a riconoscere il proprio privilegio di ragazzina nera che vive in delle belle case e frequenta scuole internazionali in zone del mondo abitate da fame e povertà: «Il lavoro di mio padre consisteva nel trasferirsi in posti dove c’era la carestia e la guerra. Non era scontato che fosse africano. Negli anni Ottanta le organizzazioni di sviluppo internazionale erano strutture molto bianche, quasi colonialiste, e un uomo africano che lavorava in Africa ci teneva in modo particolare al fatto che io e mia sorella ci rendessimo conto delle nostre fortune ma anche dei modi in cui eravamo connesse alle storie delle persone intorno a noi. Ci ha insegnato a sentirci responsabili».

Owusu cresce schiacciata nello spazio tra la certezza di questo privilegio e il dolore straniante per l’assenza della madre, di cui in famiglia si preferisce non parlare. Per certi versi, sembra una situazione quasi archetipica: l’incarnazione di un’antica fiaba popolare in cui la piccola principessa, orfana di madre, è torturata dalla matrigna invidiosa sotto gli occhi di un padre affettuoso ma incapace di vedere. La differenza è che qui, per il momento, di orfane non ce ne sono. C’è una donna, la madre, che è viva ma non ha la forza di restare. A pensarci bene, alle madri è concesso di morire, molto meno di andarsene: «Sono cresciuta con un senso di mancanza che non capivo fino in fondo. È difficile da spiegare, perché non ricordo molto di mia madre, è andata via che ero molto piccola» dice Owusu. «C’era sempre la sensazione della sua assenza, questa sorta di consapevolezza che lei non fosse lì. Era molto strano, non avevo le parole per esprimerlo perché era una situazione inusuale, praticamente unica. C’era qualcosa di vergognoso. A volte la gente mi chiedeva dove fosse mia madre e faticavo a rispondere. Sapevo che si era risposata e aveva avuto altri figli, così mi chiedevo perché avesse lasciato me e mia sorella e stesse crescendo questi altri bambini. Attraverso la scrittura, volevo arrivare a un senso di comprensione, compassione e forse di perdono. La vergogna e la rabbia che mi portavo dentro da anni non mi servivano più. Ho indagato sul trauma che attraversava la storia della famiglia di mia madre. Ho cercato di capire la sua scelta riflettendo sul fatto che, fino a non molto tempo fa (e per certi versi è ancora così), le donne avevano scelte limitate. Forse mia madre si è sentita intrappolata».

Nel libro Owusu mette in campo anche una riflessione sulla natura inattendibile dei ricordi, delle storie che ci sono state raccontate: «Scrivendo volevo decolonizzare me stessa», dice. «Quando si scrive di famiglia, si scava intorno all’impossibilità di conoscere come siano andate veramente le cose; è un continuo girarci intorno. Molte cose diverse, in contraddizione tra loro, possono essere vere nello stesso momento. Bisogna rispettare il nucleo oscuro, il mistero che c’è dietro le relazioni tra persone che diventeranno i nostri genitori». Nella storia di Owusu c’è un momento in cui tutto sembra andare per il meglio: lei ha tredici anni, frequenta la scuola americana a Roma, ha amiche e amici di tutte le nazionalità. Ma improvvisamente il padre si ammala e dopo qualche mese muore. La madre è lontana, con la sua nuova famiglia, in America. Nadia e la sorella restano sole con la seconda moglie del padre, che è violenta nelle parole e nei gesti. A un certo punto Owusu non ce la fa più e si trasferisce in Inghilterra, da una zia paterna. Va a studiare in un collegio, dove c’è solo un’altra ragazzina nera, a cui Owusu inizialmente non si avvicina perché vuole essere accettata dal gruppo delle bionde di potere della scuola. Owusu, in questa parte del romanzo, fa un ottimo lavoro nel decolonizzare il racconto ottocentesco dell’orfana in collegio. Riconosce la propria debolezza, non diventa istitutrice, non cerca un uomo che possa venire salvarla. Appena può si trasferisce a New York, studia e si mantiene da sola, lavorando come cameriera. A volte non ha i soldi per fare più di un pasto al giorno, a volte il pasto è quello offerto ai dipendenti dei ristoranti, ma Owusu non dimentica mai la fondamentale distinzione tra “l’essere poveri e l’essere senza soldi”. Beve, a un certo punto è letteralmente paralizzata dal dolore, non riesce più a muoversi di casa per il peso del trauma che chiede di essere elaborato: «Il libro è nato come un progetto privato. Stavo cercando di dare un senso alla mia vita. Mi sembrava che attraverso la comprensione delle storie della mia famiglia avrei trovato un modo nuovo di stare al mondo, ne avevo bisogno per venire fuori da un periodo di depressione».

Scosse di assestamento è un libro che riesce nell’impresa complicata di accostare i sentimenti più intimi all’universale. Ci sono pagine in cui Owusu ricostruisce il trauma del genocidio armeno nella famiglia della madre, la fuga nel deserto, la certezza devastante di essere sopravvissuti per puro caso quando molti altri non hanno avuto la stessa fortuna. E poi c’è l’Africa, la storia politica del Ghana e quella degli abiti delle zie, l’amore per la lingua twi e per il fufu (una sorta di polenta africana) e la sensazione di non appartenere pienamente a nessun luogo e a nessuna cultura: «Ghana, America, Inghilterra, Italia, Etiopia, Uganda – non potevo rivendicare per me nessuno di questi posti in modo incontestabile. Pronunciare la parola casa con convinzione è stato sempre difficile», scrive Owusu. I racconti sono tenuti insieme dai termini legati ai terremoti: «Dato che scrivevo solo per me non facevo caso a forma e struttura. Solo quando ho cominciato a pensarlo come un libro mi sono resa conto che dovevo dare a chi legge qualche punto fermo. Ma desideravo conservare anche la natura frammentaria e ciclica del narrare. E poi mi sono accorta che c’era una linea narrativa che teneva insieme gli altri frammenti, ed era la storia del crollo nervoso che ho avuto intorno ai vent’anni». Scosse di assestamento è romanzesco nel senso più puro e poetico, e Nadia Owusu è una scrittrice che non giudica mai, neanche per un momento, nessuno dei suoi personaggi. Nella lunga pagina finale di ringraziamenti ci sono anche Toni Morrison, Audre Lorde, Zadie Smith: «Sono tra le scrittrici da cui ho imparato di più. E lo devo anche a loro se adesso mi sono messa a scrivere un romanzo totalmente di invenzione».

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