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È morta Sofia Corradi, la donna che ha inventato l’Erasmus “per colpa” della burocrazia italiana Aveva 91 anni e l'idea dell'Erasmus le venne quando in Italia non le furono riconosciuti degli esami universitari fatti negli Usa.
Persino la ministra della Cultura francese ha ammesso che i ladri che hanno rubato i gioielli dal Louvre sono stati «molto professionali» Una sconsolata Rachida Dati ha dovuto ammettere che i ladri hanno agito con calma, senza violenza e dimostrandosi molto esperti.
Gli addetti stampa della Casa Bianca hanno risposto «tua madre» a una normalissima domanda di un giornalista durante una conferenza stampa Una domanda sul vertice tra Trump, Putin e Zelensky a Budapest, che Karoline Leavitt e Stephen Cheung hanno preso molto male, a quanto pare.
Hollywood non riesce a capire se Una battaglia dopo l’altra è un flop o un successo Il film di Anderson sta incassando molto più del previsto, ma per il produttore Warner Bros. resterà una perdita di 100 milioni di dollari. 
La Corte di giustizia europea ha stabilito che gli animali sono bagagli e quindi può capitare che le compagnie aeree li perdano Il risarcimento per il loro smarrimento è quindi lo stesso di quello per una valigia, dice una sentenza della Corte di giustizia dell'Unione Europea.
È uscito il memoir postumo di Virginia Giuffre, la principale accusatrice di Jeffrey Epstein Si intitola Nobody’s Girl e racconta tutti gli abusi e le violenze subiti da Giuffré per mano di Epstein e dei suoi "clienti".

Music Biz

Dai Festivalbar alle ultime app, quando i marchi usano la musica per promuoversi - come farlo bene e cosa evitare a tutti i costi.

27 Agosto 2013

“È un linguaggio universale. Parla direttamente ai giovani. Supera tutte le barriere geografiche (aggiungere poi frasi e luoghi comuni che possibilmente comprendano parole come pop, solare, contemporaneo, positivo, aggregante…)”.

Ecco, questi sono solitamente alcuni dei rational che si possono trovare nei commenti ai piani di marketing che supportano la decisione di utilizzare la musica per lanciare o promuovere un brand. Il più delle volte questo si riduce miseramente a sponsorizzare concerti (leggi “mettere il loghino sul cartellone e – se ti va bene – mettere il logo più grande a fianco del palco e, se ti va ancora meglio, distribuire sample di prodotto tra il pubblico) o a organizzare triste riproduzioni di serie B dei vecchi Festivalbar, oppure utilizzare l’ultimo singolo dell’artista coinvolto per fare da colonna sonora allo spot tv.

Sono davvero poche le aziende che sono riusciti nel tempo ad approcciare alla musica in modo intelligente, utile per il settore e profittevole per il brand; il più delle volte la musica è semplicemente un tool interscambiabile con la sponsorizzazione a una squadra di pallavolo, a un museo o con il product placement in un film.

Solitamente in questa rubrica tendo a non parlare dei lavori che ho fatto e faccio come consulente, però in questo caso, considerato che è passato tanto tempo, faccio uno strappo alla regola. Ho infatti avuto l’onore e il privilegio di aver partecipato attivamente a uno dei rari casi in cui un’azienda, almeno in Italia, è riuscita a impegnarsi seriamente (e con successo) attraverso un progetto pluriennale sul mercato musicale: sto parlando di Heineken Italia e, in particolar modo, con l’operazione fatta nella seconda parte degli anni 90.

Una volta che il marchio Heineken si fu accreditato nel mondo musicale, allora il terreno fu pronto per il primo festival rock prodotto da un’azienda che non aveva come core business l’organizzazione di eventi musicali

In origine il brand Heineken in Italia aveva buone performance di vendita sugli scaffali dei supermercati, ma soffriva un po’ nei canali dei bar e dei locali notturni; le ricerche confermavano che c’era un problema con l’immagine del brand sul target dei giovani. Fu così che il marketing decise di intraprendere un progetto pluriennale e articolato sulla musica rock-pop e jazz: iniziò con gli Heineken Music Club, un network di locali e disco pub che avevano già un’attività di musica live a cui Heineken offriva, in cambio di un contratto commerciale di esclusiva, un roster di artisti e band di qualità (dai Subsonica a Steve Wynn, da Carmen Consoli a Alanis Morrisette). Continuò con la sponsorizzazione di Umbria Jazz a cui si associava l’organizzazione della Heineken Night, una serata autoprodotta all’interno della rassegna in cui venivano presentati artisti e band acid jazz (genere che allora funzionava) come gli US3, Galliano e Guru – Jazzmatazz, Koop etc… Una volta che il marchio Heineken si fu accreditato nel mondo musicale, non come semplice sponsor ma come un player affidabile, allora il terreno fu pronto per il primo festival rock prodotto (e non sponsorizzato) da un’azienda che non aveva come core business l’organizzazione di eventi musicali. I primi quattro anni (quelli a cui partecipai nell’organizzazione) dell’Heineken Jammin’ Festival all’Autodromo di Imola furono un grandissimo successo, a partire dalla prima edizione nel 1998 cui presero parte oltre 160.000 persone.

Ma la musica, o meglio, le canzoni possono essere un linguaggio efficace anche per raccontare il brand e i propri valori. E se è vero che la musica sarà sempre più liquida e trasmessa in streaming, allora niente di meglio per un marchio di creare delle playlist per comunicare se stesso. È quello che stanno iniziando a fare alcuni brand del lusso, che ancora una volta si dimostrano quelli più innovativi sui media digitali e con il coraggio di rischiare nuove strade, aprendo un proprio account su Spotify e cominciando a condividere le proprie playlist.

Per adesso sono previsti solo spazi pubblicitari canonici in forma di annunci radio, spot audio classici e video, ma ad oggi questo non costituisce niente di innovativo

Il servizio musicale in streaming attivo dal 2008 e che da febbraio è attivo anche in Italia, ha aperto la strada ai brand non solo come inserzionisti pubblicitari, ma anche come utenti attivi: un modo efficace di rendere più tangibili i propri valori, parlando alla sfera emozionale delle persone. La griffe tedesca Hugo Boss, per festeggiare i propri 20 anni di attività, oltre a mettere in live streaming la propria sfilata durante la Berlin Fashion Week, ha anche inserito su Spotify la musica utilizzata sul catwalk; la catena di negozi Bergdorf Goodman inserisce da tempo su Spotify le playlist che cambiano mese dopo mese e che sono diffuse anche nei loro store; Christian Louboutin, brand icona delle scarpe di lusso femminili, ha realizzato invece varie playlist ciascuna dedicata ad alcune grandi città. Peraltro Spotify ha anche la capacità di riconoscere gli utenti e identificarli in base alla posizione geografica e altri criteri, come appunto i gusti musicali.

La sfida è aperta, sopratutto perché il terreno competitivo della musica in streaming si sta sempre più ampliando: oltre al competitor Pandora (200 milioni di utenti solo negli States, con un +43% di fatturato rispetto ), Deezer e Google Music Unlimited, nelle prossime settimane arriverà, con il lancio della iOS 7, anche iTunes Radio. Il buon ultimo servizio in streaming che sarà integrato nell’app Musica dell’iPhone e iPad permetterà di ascoltare musica accedendo a centinaia di stazioni radio virtuali. Per adesso sono previsti solo spazi pubblicitari canonici in forma di annunci radio, spot audio classici e video, che certamente porteranno molti soldi nelle casse di Cupertino, dal momento che brand come McDonald’s, Nissan, Pepsi e Procter & Gamble si sono già assicurati l’esclusiva per tutto il 2013, ma ad oggi questo non costituisce niente di innovativo.

Ah, e poi c’è anche Twitter #music da qualche settimana attivo anche in Italia: questa applicazione tematica del social media più noto al mondo se oggi è un ottimo strumento di promozione per gli artisti, in futuro potrebbe diventare un tool di comunicazione efficace anche per quelle aziende che vorranno comunicare attraverso la musica.

Immagine: la folla in estasi durante il festival di Glastonbury in Inghilterra (Matt Cardy / Getty Images)

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