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Mohamed Mbougar Sarr: come ritrovare fede nella letteratura

Intervista allo scrittore senegalese che con La più recondita memoria degli uomini è diventato il primo autore dell’Africa sub-sahariana a vincere il premio Goncourt.

13 Ottobre 2022

Da piccolo giocava sempre a Scarabeo. Gli piaceva utilizzare le parole tecniche e difficili che trovava e camuffarle all’interno di una frase normalissima. Mohamed Mbougar Sarr, nato a Dakar nel 1990, è sempre stato affascinato dalla possibilità delle parole di combinarsi e diventare altro. Il romanzo che ha scritto e che gli ha fatto vincere il premio Goncourt lo scorso anno è un romanzo che esplicita il suo amore per la letteratura, come se fosse una lettera scritta per quel libro che ci ha fatto ossessionare e dannare e sulle cui pagine continuiamo a ritornare anno dopo anno per trovare sfogo a nuove domande. La più recondita memoria degli uomini (Edizioni e/o) è un romanzo labirintico di chiara vocazione bolañiana che segue il ritrovamento di un libro mitologico di cui si erano perse le tracce negli anni Trenta, dopo che si era scoperto che si trattava di un plagio e che il suo autore, definito al tempo “il Rimbaud ne***”, era scomparso misteriosamente. A ritrovarlo per caso è Diégane, un giovane scrittore senegalese che vive a Parigi nel 2018, e che rimane intrappolato nella sua lettura nel tentativo di saperne di più di questo autore dimenticato. Con questo libro, il suo quarto, Sarr è diventato il primo scrittore dell’Africa sub-sahariana a vincere il premio Goncourt. Quando è entrato a Drouant, il ristorante parigino dove ha luogo la premiazione, ha detto che era un segnale forte per gli scrittori di tutti i paesi francofoni, oltre che per i giovani come lui. Qualche giorno dopo, sui social senegalesi hanno iniziato a fare caso alle sue produzioni precedenti, soffermandosi in particolar modo sulla storia d’amore omosessuale che era al centro del suo penultimo romanzo, giudicato un attentato ai valori tradizionali del Paese. Non si sbilancia sulla questione, mentre parliamo su Zoom, consapevole che «siamo in un momento in cui bisogna unire il libro all’autore perché spesso si accede al libro solo perché abbiamo sentito parlare del suo autore». Ma mi garantisce che di casa sua nel libro c’è molto, specialmente quando accenna a eventi soprannaturali: «Vengo da una cultura dove il soprannaturale fa parte del reale e fin da piccolo ho attinto a questa atmosfera che mescolava magia, l’invisibile e la morte: per me fa parte della vita quotidiana, sicuramente una dimensione nuova per chi è abituato alla letteratura generale o bianca».

ⓢ Nel tuo libro ti soffermi spesso sulla impossibilità di parlare dei libri stessi. I personaggi sono in difficoltà quando vengono messi davanti alla domanda «di cosa parla questo libro?»; alcuni ricorrono all’emotività, altri alla trama, i temi, ma nessuno sembra funzionare. Mi piacerebbe iniziare l’intervista chiedendoti come si fa secondo te un discorso su un libro.
Credo che ci siano molteplici punti di ingresso a un libro, e che proprio per questo non si riesca a parlarne facendo finta che ce ne sia uno solo, come stiamo facendo sempre di più oggi. Si tratta sempre di ridurre il libro al suo tema, alla lingua o alla trama; invece la grande letteratura che attraversa il tempo mescola tutto e resta difficile da cogliere. Una definizione possibile di un grande romanzo è quello che supera tutte le categorie del discorso o meta-discorso e che ti obbliga ad andartelo a leggere e a farti intrattenere da quello che ti propone e basta. Non è una proposta radicale, ma un modo di sottolineare che un libro non si può ridurre a quelle categorie sotto cui siamo soliti giudicarlo.

ⓢ Sono interessanti anche le riflessioni che inizi sulla scrittura. Il protagonista, un giovane scrittore, davanti a un grande romanzo come quello che ha ritrovato si chiede come mai continui a scrivere, se tutte le parole sono già state combinate in maniera così perfetta. Abbozza una risposta: «Scrivevamo perché non sapevamo niente, scrivevamo per dire che non sapevamo più cosa bisognasse fare al mondo se non scrivere ostinati e stremati e gioiosi senza speranza ma senza facile rassegnazione». Secondo te?
Credo di aver iniziato a scrivere questo libro proprio per rispondere a questa domanda. Mi sono messo a scrivere in un momento di grave crisi di fede nella letteratura. Il libro è stato una prova che non ha dato una risposta alla mia domanda, ma una certezza nel fatto che fosse questo quello che volevo fare nella vita perché per me aveva il valore di una consolazione e di una inquietudine perenne. Scriviamo anche per vedere che cosa siamo pronti a perdere o a guadagnare e diventi scrittore se accetti di giocare a questo gioco.


ⓢ È curioso, usi la parola consolazione anche nel libro, quando scrivi «Avere una ferita non implica che si debba scriverla», poi «Nessuna ferita è unica. Niente di umano è unico. Nel tempo tutto diventa terribilmente comune. Ecco il vicolo cieco. Ma è proprio in questo vicolo cieco che la letteratura ha una possibilità di nascere».
La letteratura non serve veramente per consolarti. Lo scrittore Stig Dagerman diceva che la letteratura è una consolazione senza rimedio. Credo che cerchiamo sempre di riallacciare la letteratura alla condizione umana per consolarci mentre la letteratura ci rimanda sempre alla singolarità della nostra esperienza: perché siamo soli ma condividiamo questa solitudine con gli altri, quindi è paradossale. Quello che è importante nella letteratura è cercare qualcosa che sia un oggetto di conoscenza esistenziale e non semplicemente un oggetto esterno a noi dal quale ci distacchiamo nel momento in cui la lettura è finita: deve continuare nel tempo.

ⓢ Quindi, al contrario del tuo protagonista, non sei tormen
tato dall’idea dell’originalità quando scrivi? Penso all’influenza che ha avuto Bolaño sul tuo libro e al fatto che non ti sei fatto problemi a esplicitarla già nel titolo.
No, non credo nell’originalità nella letteratura nel senso in cui vuol dire novità nell’esperienza estetica. Preferisco il concetto di singolarità, che non vuol dire scrivere qualcosa di nuovo, ma renderlo molto personale, da applicare a quello che è stato espresso un numero infinito di volte dagli altri che però non sono noi. È questa la letteratura, impadronirsi di un’esperienza che è stata vissuta mille volte ma cercare di dire comunque qualcosa: è per questo che esiste lo stile, una visione del mondo, una storia, che non sono replicabili ma personali.

ⓢ Nel libro esplori due posizioni diverse su cosa è tenuto a fare un autore africano che scrive in francese e pubblica in Francia. Hai trovato una risposta?
Sono domande che mi faccio sempre: devo per forza scrivere di certi temi solo perché sono africano, in quale lingua devo scrivere perché il mio libro possa essere letto da più persone? Non ho una gerarchia di ciò che si deve e non si deve fare, ma  ogni scrittore deve trovare ciò che corrisponde di più alla sua esperienza e che gli permette di andare in profondità e di esprimerla nel modo più bello possibile. Quando uno scrittore africano pubblica in francese, non deve prestare attenzione alle aspettative esterne. Al contrario, deve ascoltare i propri desideri e la propria voglia di scrivere e cercare di esprimerla. Capisco che  la scelta della lingua è importante per far sì che il mio libro venga letto da più persone, ma devo anche fare attenzione perché  cambiando lingua non è detto che verrà davvero letto. Devo anche chiedermi se, cambiando la lingua, sarò a mio agio nell’esprimere profondamente ciò che voglio dire. Ma non ho ancora una risposta definitiva, per ora posso solo cercarla nella scrittura.

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